Cultura dei nativi americani
martedì, 10 settembre '24
I bambini e i ragazzi Indiani
Pubblicata lunedì, 12 gennaio '04
Una famiglia numerosa godeva di grande prestigio in tutte le tribù e la nascita di un bambino veniva accolta con immensa gioia. Presso i Cheyenne poteva addirittura succedere che alla nascita del suo primo figlio (specialmente se maschio) un uomo facesse voto di praticare assoluto celibato per un periodo di sette o perfino quattordici anni, in modo da poter concentrare tutte le sue attenzioni su quell’unico figlio, piuttosto che suddividerle, magari male, con gli altri.
Fino al momento in cui incominciava a camminare, il bambino stava costantemente a contatto con un adulto (in genere la madre). Dopo però poteva scorrazzare liberamente per la tribù e si rivolgeva a molti, fra gli adulti che incontrava, chiamandoli “madre” e “padre”: normalmente potevano essere le sorelle e i fratelli della vera madre e del vero padre ma, a volte, anche altri membri della tribù venivano chiamati così.
Orso in Piedi, dei Sioux, racconta: “Nella tribù dei Lakota tutti erano molto disponibili a occuparsi dei bambini. Un bimbo non apparteneva solo alla sua famiglia, era figlio di tutto il clan. Appena era in grado di camminare, poteva muoversi in tutto l’accampamento come se fosse stato a casa sua perché tutti si sentivano suoi parenti. Mi raccontava mia madre che quando ero bambino venivo spesso portato di tenda in tenda e che molte volte passavano giorni in cui mi vedeva solo raramente e per sbaglio…”.
Per un bambino la vita in una famiglia allargata era decisamente confortevole per la stabilità e la sicurezza che dal punto di vista psicologico si creavano e che i genitori biologici, da soli, non sempre potevano garantire.
I giocattoli (bambole, animaletti…) erano costruiti dalla madre con pelle di animali e decorati con aculei di porcospino colorati e pelli di bisonte. Fra gli Hopi i bambini venivano avvicinati ai princìpi della religione facendoli giocare fin da piccoli con le bambole kachina, intagliate nelle radici del pioppo americano, che raffiguravano gli spiriti dei defunti e che venivano anche utilizzate nel corso degli innumerevoli riti della tribù. I compagni di giochi erano numerosi: fratelli, sorelle, cugini naturali o acquisiti. Stando molto a contatto con gli adulti il bambino riproponeva spesso nei giochi le attività in cui li vedeva occupati.
“Tra gli Cheyenne, accanto ai giochi di carattere militare e sportivo, come l’apprendere l’uso dell’arco, i ragazzi facevano con le loro coetanee il gioco detto l’accampamento. Le fanciulle, o le loro madri, costruivano un piccolo tepee; le ragazze più grandi erano scelte come “madri”, i bimbi più piccoli come “figli” e il gioco si protraeva per tutto il giorno, imitando quelle che sono le attività economiche e sociali di una vera famiglia. I ragazzi più grandi mimavano con molto realismo e una forte dose di umorismo la caccia al bisonte degli adulti, per il divertimento della loro famiglia in miniatura. Altra imitazione favorita era quella della guerra, che si svolgeva anch’essa con molto realismo e si concludeva quando le ragazze smontavano l’accampamento e si ponevano in fuga con i loro piccoli e i loro averi mentre i loro uomini cercavano di trattenere e sconfiggere il nemico” (tratto da “Inculturazione Deculturazione Acculturazione Etno e Genocidio” di Ernesta Cerulli)
Attraverso i giochi e l’imitazione il bambino imparava presto il coraggio, la forza fisica e tutte le altre qualità che gli sarebbero state richieste prima di fare il suo ingresso nella comunità come adulto. È sempre Orso In Piedi che parla: “Se mio padre voleva insegnarmi qualcosa usava gli stessi metodi di mia madre. Non diceva: "Devi fare questa cosa o quest'altra" ma mentre era occupato in un lavoro mi diceva: "Figlio, quando un giorno sarai un uomo lo farai nello stesso modo!"
Il metodo educativo era dunque l’esempio, applicato comunque sempre con un grande rispetto verso il piccolo essere umano che si aveva davanti: non si arrivava mai a percosse o coercizioni. Lentamente, con pazienza, rispettando i tempi del bambino, lo si abituava alla sua futura vita da adulto. Un capo Crow, Molti Colpi, sintetizza così: “Coloro che si occupavano della nostra educazione (nonni, padri, zii..) erano attenti, scrupolosi e pazienti. Lodavano sempre una buona azione ma, contemporaneamente, evitavano qualsiasi commento che avrebbe scoraggiato un giovane più lento nell’apprendimento. Un giovane che falliva o non riusciva in un compito aveva il doppio delle loro attenzioni e questo fino a quando non avesse sviluppato appieno le sue capacità e raggiunto lo sviluppo completo dei suoi talenti”.
Un osservatore bianco, ammesso a un’importante riunione dei capi anziani Hopi avvenuta più di trent’anni fa, raccontava stupito che nella sala scorrazzavano bambini e che uno dei capi che stava parlando si interruppe per prendere sulle sue ginocchia un piccolo in lacrime e che riprese il suo discorso solo dopo averlo consolato e rimesso a terra.
Giorno dopo giorno, osservando e partecipando in prima persona a tutte le attività della tribù (cerimonie, feste ma anche ad ogni aspetto della vita quotidiana), i piccoli crescevano: le bambine imparavano dalle altre donne come conservare la carne e cucinarla, come trattare la pelle e cucirla, quali radici o bacche raccogliere nel bosco, come seminare e coltivare; i bambini osservavano gli uomini mentre si preparavano per la caccia, imparavano quale legno utilizzare per l’arco e le trappole, come costruire frecce o canoe. Tutti imparavano canzoni e danze, ascoltavano le storie e i miti della tribù che gli adulti non si stancavano mai di raccontare.
Giunti alla pubertà (avvenimento che coinvolgeva tutta la tribù in feste che potevano durare giorni e giorni), alle ragazze venivano affidati compiti precisi nell’ambito domestico mentre i ragazzi erano spronati a mostrare coraggio e forza fisica superando prove di resistenza al dolore a volte estremamente dure. In molte tribù il periodo del corteggiamento partiva da questo momento e spesso veniva favorito lasciando completamente liberi i ragazzi di frequentarsi.
Verso i quattordici, quindici anni i maschi potevano essere ammessi in una delle prime associazioni guerriere ma dovevano in genere aspettare ancora un paio d’anni prima di poter partecipare a un’azione di guerra. Per diventare un grande guerriero il ragazzo doveva isolarsi in un luogo sacro, digiunare e aspettare una “visone” attraverso la quale capire quale poteva essere il suo futuro spirito protettore (in genere un uccello o un altro animale), al quale rivolgersi per avere consigli sia in pace sia in guerra.
Gli stravaganti e poetici nomi indiani, tradotti molto spesso assai male dai bianchi, potevano avere varie origini e non erano definitivi: nel corso della vita una persona passava tre tappe in occasione delle quali poteva cambiare il nome e queste tappe venivano spesso celebrate con riti e feste.
Un primo nome veniva dato al neonato: poteva semplicemente essere condizionato dai regali ricevuti dalla famiglia nell’occasione, poteva essere il nome del nonno o della nonna, poteva ricordare un’azione coraggiosa del padre, poteva collegarsi a qualche sogno fatto dai famigliari o ricordare un avvenimento particolare legato alla nascita.
Presso alcune popolazioni la cerimonia dell’assegnazione del nome aveva la stessa importanza del Battesimo nella tradizione cristiana. Fra gli Hopi avveniva venti giorni dopo la nascita del bambino: questi veniva lavato, gli si imbiancava il volto con la sacra farina di mais e poi, avvolto nella coperta più bella, veniva portato fuori per la prima volta dall’abitazione per essere presentato al Sole nascente, che lui non aveva ancora visto.
In alcune tribù, arrivati alla pubertà, i ragazzi potevano ricevere un altro nome che si riteneva potesse assicurare longevità a chi lo portava e che aveva quasi sempre un significato legato alla sessualità.
In seguito, di solito in coincidenza con la prima azione di guerra di un giovane, con il suo ingresso in un’associazione guerriera o in relazione a un qualche fatto importante, il nome poteva essere ancora cambiato (la scelta questa volta era generalmente lasciata al nonno).