Pubblicata mercoledì, 11 febbraio '04
Sud Dakota. Riserva degli indiani Lakota di Cheyenne River.
Agosto 1997.
La riserva indiana di Cheyenne River, in Sud Dakota, é simile a tutte le altre riserve indiane disseminate su tutti gli Stati Uniti d'America. E' povera, squallida, desolante, il terzo mondo dentro il primo Paese del mondo. Ti si spezza il cuore a vedere un Popolo un tempo fiero, bello, ricco di alti valori spirituali, di modi gentili, generoso, ospitale, ridotto alla pallida ombra di sé stesso, fiaccato dall'alcoolismo, dalla disoccupazione cronica, da un tasso di suicidi inesorabilmente troppo alto, da malattie endemiche che raramente vengono diagnosticate in uno qualunque dei migliaia di ospedali del resto della nazione americana.
Le case degli indiani sono dei lunghi vagoni ferroviari, in pratica un solo stretto vano dal quale é necessario ricavare uno spazio cucina e uno per la notte per famiglie spesso composte da numerosi bambini e dai vecchi. A qualche metro dalla casa, solitamente sospesa su qualche mattone che la isoli da terra, si erge, solitario e imbarazzante, il vano dei servizi igienici, un baracchino di due metri per uno. Caratteristica assurda nell'assurdo: il vano servizi igienici, non di rado, è inclinato su un lato, forse a causa degli impetuosi venti del nord, forse per mostrare a chiunque non se ne voglia ancora convincere che gli Indiani si piegano ma non si spezzano.
A pensarci bene il vano servizi igienici é fornito di lussuosissimi confort. Per esempio della sauna, visto che d'estate in Sud Dakota si superano facilmente i 40 gradi sopra lo zero; e della cella frigorifera, visto che gli interminabili inverni sono contrassegnati da punte di -30, -35 gradi. Per quel che riguarda l'uso più comune cui i servizi igienici sono solitamente destinati, diciamo che d'estate… pazienza, e che d'inverno il Dipartimento della Salute tiene dei corsi per diventare stitici, così almeno gli indiani non corrono il rischio, per non morire in un modo di dover morire in un altro.
Tutt'intorno, un mare di colline per centinaia di miglia, qualche basso fiume che scintilla argenteo sotto il sole, rari alberi, erba che fluttua al vento incessantemente.
Una mattina, all'alba, ho avuto la fugace visione di un paio di antilopi americane, un bel maschio e un'agile femmina che compivano balzi portentosi, sparendo oltre un crinale, probabilmente diretti a un corso d'acqua a cui dissetarsi.
E poi ci sono i cani della prateria, bellissimi roditori che reggendosi sulle zampette posteriori controllano che attorno alle loro tane tutto vada per il meglio.
I bisonti, prima dell'arrivo dell'uomo bianco in numero di quasi settanta milioni, non ci sono più da cent'anni. Distrutti, sterminati come gli Indiani, eliminati scientificamente per prendere gli Indiani per fame, considerato che le guerre contro di loro cominciavano a costare una vera fortuna al governo degli Stati Uniti.
I pochi bisonti che restano oggi (le stime dicono fortunatamente in crescita), li puoi trovare all'interno dei grandi parchi, protetti, si dice.
Gli Indiani stanno lì, i vecchi seduti su un muretto; i più giovani, intenti a cercare disperatamente qualche occupazione fuori della riserva per racimolare quel tanto che basti per non patire la fame e per poter continuare a bere. Confortante.
Il massacro di oltre trecento donne, vecchi e bambini, avvenuto a Wounded Knee nel 1890 segna ufficialmente la fine del “Far West” e delle guerre contro i selvaggi Indiani da parte dell'avanzare della civiltà dei bianchi. Ma é l'Allotment Act del 1887 che in realtà li termina. L'Atto stabilisce infatti che quel che resta della loro terra sia diviso in lotti che verranno distribuiti alle famiglie dei Nativi onde trasformarli da nomadi cacciatori in sedentari agricoltori timorati di Dio. Balle. In pratica da 155 milioni di acri, la Grande Riserva dei cosiddetti Sioux viene ridotta a soli 47 milioni. Il resto, giudicato surplus dalle teste d'uovo di Washington, viene venduto a prezzi ridicoli ai “volonterosi” coloni bianchi che vergognosamente premono per entrarne in possesso a scapito dei reali possessori dell'America.
L'Allotment Act, che io sappia, non é mai stato abrogato, ma se ciò é accaduto, il fatto é puramente teorico. Le attuali condizioni di vita degli Indiani li obbligano infatti dal lontano 1887 a cedere o ad affittare di continuo quel poco che resta della loro terra ai nuovi coloni (pardon, farmers) bianchi che continuano vergognosamente a premere per entrarne in possesso. Anche senza saper nulla di storia ti accorgi che c'é qualcosa che non va: eh sì, perché considerato che si tratta di “Riserva Indiana” non si capisce come mai i bianchi siano così numerosi al suo interno e ogni volta occupino i soli posti che rendano dollari: li vedi gestire il ristorante, lo spaccio, l'officina meccanica, e così via. Be', si sa, noi siamo più intelligenti, più capaci, più responsabili. E' giusto che sia così per “mandato divino”.
E' la sera del 9 di agosto. Sono da poco passate le nove. Siedo a un tavolo del ristorantino in stile western di Eagle Butte, la capitale della riserva. Ho appena ordinato una bistecca di manzo grande più del piatto e alta tre centimetri, con insalata, al costo di appena tre dollari, e una birra Bud-light. Il locale é gremito di cowboys, indiani dai volti dimessi, famiglie di contadini con le camicie a quadri e relativi figli che non si tolgono il berretto con la visiera girata sulla nuca neanche per andare a letto e in chiesa.
Fa il suo ingresso una famigliola di italiani. Lo si capisce da come sono vestiti: un casual costoso e ricercato firmato Missoni. Padre, madre, una bambina sui dodici anni. Insolito. Non trovare degli italiani in America, ma in una riserva indiana. Perché, ammenoché non si abbiano particolari interessi culturali, in una riserva indiana non c'é proprio niente da vedere e fotografare. La miseria non la si mostra volentieri agli amici una volta tornati a casa. I tre stanno cercando un posto. La cameriera si guarda in giro, si accorge che sono solo a un tavolo da quattro e mi domanda se ho qualcosa in contrario a far accomodare degli estranei. Ovviamente rispondo di no. Però penso che non avevo voglia di parlare con nessuno, tanto meno con dei connazionali. Non per superbia. Solo perché di solito quando ci si trova tra italiani all'estero si comincia col disprezzare il proprio Paese in favore di quello che ci ospita e alla fine, immancabilmente, la situazione si ribalta in barba al più bieco qualunquismo.
Dico: -Prego, accomodatevi...-
-Italiano anche lei?-
-Già.-
-Lei qui c'é già venuto prima? Sa come si mangia?- chiede la signora, una donna sulla quarantina di aspetto molto fine, con una lieve inflessione romana nella voce.
-Le bistecche sono ottime. Anche le verdure, crude e bollite. Non c'é molta alternativa.-
-Spaghetti?- domanda con uno sguardo malizioso.
C'avrei giurato, ne ero sicuro al mille per cento.
-In una riserva indiana, in pieno Far West? Sul menù non ci sono, ma anche se ci fossero...-
-Li farebbero scotti- mi interrompe sottolineando le parole con un'espressione di scontatezza e un sorriso a trentadue denti bianchissimi e perfetti. E' simpatica, penso.
-Credo proprio che sarebbe così- azzardo timidamente.
-E magnamose 'nartra bistecca!- esclama il padre marcando volutamente l'accento romano (e la sua maglia di Missoni diventa d'un colpo un cencio da refettorio per asciugare i piatti).
Dopo cinque minuti la cameriera ci serve.
La carne é ottima, e mi stupirei del contrario, considerato che siamo nel Paese che le bistecche le ha inventate.
-E' un po' duretta- commenta invece la signora. La bambina, al contrario, afferma che é tenerissima. Il padre ruota l'indice per aria e sentenzia: -Ma voi due ve trovate mai daccordo su quarcosa?-.
Per quel che riguarda me, calcolo una cinquantina di bocconi tra proteine e vitamine, cinque sorsi di birra e che poi me ne andrò a dormire.
Inaspettatamente il dialogo d’improvviso decolla sul culturale, ma culturale di quello profondo, mica roba da ridere.
-Ma i bisonti ci sono?- domanda la signora con uno sguardo che mi trafigge come una coltellata a ciel sereno.
-Tatanka!- scandisce secca la bimba, memore del film Balla coi lupi.
-I bisonti?- balbetto con stupore -no... I bisonti sono stati sterminati più di un secolo fa. Li trova solo nei grandi parchi.-
La signora ha un'espressione di stupore molto più soave del mio. -Ma come? nel film Balla coi lupi ci sono! Siamo in una riserva indiana, no? se non stanno qui dove devono stare?-
-Tatanka!- scandisce ancora la bimba più puntuale della fatidica ora X.
Intuisco che quella trancia di dialogo verrà presa pari pari da Spielberg per il suo fantastico re-make del film “Ultimatum alla Terra”, per la scena-madre dell'uomo venuto da un'altra galassia che tenta disperatamente di comunicare coi terrestri.
Il marito nel frattempo s'é bloccato come una statuina di gesso, forchetta e coltello a mezz'aria, e naive-naive incalza: -E i tipì ci stanno?-
-I tipì?- ripeto io con uno stupore che sgrana i miei occhi più di quanto potrebbe mai fare il re di tutti i gufi.
-Neanche i tipì ci sono più. Vede, le coperture dei tipì, come ben sapete, erano costituite da pelli di bisonte. Non essendoci più i bisonti...-
-Ma così é brutto- sussurra affranta la signora con una furtiva lacrima e una frustata di purissimo cinismo.
-Spiace più agli indiani, creda. Darebbero qualunque cosa perché il tempo potesse tornare indietro, ma questo ovviamente non é possibile.-
-E quelli che vediamo in giro sono indiani?- domanda l'uomo inclinando il capo a sinistra.
-Se non hanno le lentiggini e i capelli biondi o rossi o la barba... Nove su dieci direi di sì-.
-Ma non vanno a cavallo e non hanno le penne in testa- incalza il padre della bambina che, ignara della tragedia che é la sua famiglia all'apparenza normale, seguita imperterrita a divorarsi la sua bistecca.
-No, non hanno le penne in testa- sottolineo mesto. -Le penne erano d'aquila, l'aquila é protetta, visto che noi bianchi l'abbiamo quasi estinta… E poi la corona di penne d'aquila veniva indossata dalle figure preminenti in seno alla tribù solo in particolari circostanze, e i tempi sono tali per cui oggi...-
Mi blocco come mi fossi destato da un profondo letargo. Ma che sto facendo? mi domando, qui bisorrebbe partire da prima di Cristoforo Colombo e parlare per una settimana di fila. Poi rifletto che pure senza alcuna cultura in materia certe cose si potrebbero anche sentire se non proprio conoscere.
La donna a quel punto schiude le labbra, sta per dire qualcosa. Si trattiene per un attimo, segno che sta soppesando attentamente le parole, poi finalmente si sente pronta ed esclama tutta d’un fiato: -Be’, però, scusi eh… Non ci stanno i bisonti, non ci stanno i tipì, gli indiani non hanno le penne in testa e non vanno a cavallo... Ma allora cosa ci siamo venuti a fare qui?- conclude lanciando un’occhiata interrogativa al marito.
Il silenzio é glaciale, paralizzante, metafisico.
-Non saprei- considero io -qui non siamo a New York o a San Francisco o alle Hawaii. Se si va in una riserva indiana é solo per capire.-
Il marito mi fissa sconvolto. La moglie costruisce un'espressione che é quella di chi pensa: "Magari sapessi cosa vuol dire capire."