Cultura dei nativi americani
venerdì, 22 settembre '23
Ossa e Sogni
Pubblicata lunedì, 15 novembre '04
Una storia dei Tanaina dell’Alaska meridionale racconta di un giovane che per sbadataggine spezzava sempre le ossa dei caribù che aveva abbattuto e le gettava via. In conseguenza di ciò, i topi cominciarono a dargli fastidio: lo disturbavano durante il pasto, mangiavano gli animali che trovavano nelle sue trappole e di notte gli impedivano di dormire. Una volta vide in sogno la regina dei caribù che gli indicava gli animali orribilmente mutilati, delle cui sofferenze egli era colpevole con la sua noncuranza. La regina gli spiegò che le anime degli animali, che dovevano mettersi nei corpi riformatisi dalle ossa spezzate, non sarebbero mai più potute tornare sulla Terra come selvaggina.
Ogni specie di animale utilizzabile viveva sotto la protezione di una signora o di un signore degli animali, con cui gli uomini dovevano aver buoni rapporti, se volevano aver fortuna nella caccia. Ciascuno, inoltre, possedeva un’anima individuale. “L’animale e la sua anima sono una cosa sola”, spiegava un koyukon all’etnologo Robert K. Nelson “Se chiami un animale per nome, chiami anche la sua anima. Perciò alcuni nomi di animale sono hutlanee (tabù) – ad esempio quelli che le donne non possono pronunciare - perché chiamare per nome un animale è come chiamare la sua anima. Altrettanto raramente pronunciamo i nomi delle persone morte. Se li pronunciassimo, chiameremmo le loro anime, e ciò sarebbe pericoloso per chiunque lo facesse”.
Solo l’osservanza di un gran numero di regole garantiva il successo nella caccia. Fra gli Athabaska della zona subartica nordoccidentale, il cacciatore, prima di una battuta, sognava le tracce dell’animale da catturare, la cui anima gli indicava così che era pronta a consegnarglisi. Fra i popoli algonchini, per lo più si incaricava di sognare la preda un veggente a cui il cacciatore in seguito si rivolgeva. I caribù si annunciavano agli Athabaska anche per mezzo di canti che attraversavano la mente del cacciatore. Ma questi canti potevano anche alludere a violazioni di tabù : se, ad esempio, una donna aveva mangiato carne fresca di caribù durante il periodo mestruale. In ogni caso, il cacciatore instaurava con la selvaggina una relazione personale e si rivolgeva alla preda desiderata come a un parente o addirittura come a un’amante.
Ogni spedizione di caccia era preceduta da una sauna che doveva purificare ritualmente il cacciatore. Quando qualcuno partiva per la caccia, non annunciava direttamente il suo progetto, ma invece di dire: “Vado a caccia di alci” diceva: “Andrò a vedere le impronte delle alci”. In presenza della preda uccisa, non se ne faceva mai il nome, per non indispettire l’anima, ma ci si serviva di una perifrasi. Fra i Koyokun, la volpe rossa diventava “Molte Tracce”. Le donne non potevano mai chiamare con il suo nome l’orso bruno, ma vi alludevano come a “Quello che sta sui monti” e, quando parlavano inglese, dicevano solo “Grande animale”. A un lupo ucciso si metteva in bocca carne di pesce, a una volpe un osso, per alimentarne e pacificarne lo spirito. Alle lepri si rompevano le zampe posteriori prima di portarle a casa perché la loro anima non potesse saltellare e provocare danni. Per molte specie di animali era considerato particolarmente offensivo che i cani rosicchiassero le loro ossa, per questo si preferiva sfamarli con il pesce.
Il castoro era tenuto in grande considerazione per il suo stile di vita (chiamare qualcuno “castoro” è ancora ritenuta la lode più alta) ma l’impiego della sua carne prelibata richiedeva particolari avvertenze. Non gli si doveva mai tagliare la gola o ferirgli gli occhi. I Koyukon ne rigettavano in acqua le ossa spolpate recitando la preghiera “Rinasci l’anno prossimo”.
Anche ai pesci, come alla selvaggina, si attribuivano forze spirituali. Ad esempio, ai bambini koyukon si appendevano intorno al collo code di salmoni come amuleti contro ogni sorta di disgrazia. La prima pesca della stagione era consumata in comune da tutti i pescatori (e si doveva stare attenti a che nessuna lisca si staccasse dalla spina dorsale del pesce) e, alla fine, si gettavano nel fiume gli scheletri interi.