Cultura dei nativi americani
martedì, 28 novembre '23
Il Lacrosse
Pubblicata domenica, 17 aprile '05
Il lacrosse, decisamente, non è uno sport come gli altri.
Nel panorama farcito di dollari, eroi e diritti televisivi dello sport nordamericano, tanto per cominciare, resta una disciplina marginale, fatta per appassionati entusiasti, più che per atleti in cerca di fama e ricchezza, con meno di un milione di partecipanti attivi in tutto il mondo, la metà dei quali nei soli Stati Uniti e Canada. Tra le poche federazioni internazionali che lo praticano, poi ce n’è una che rappresenta una piccola nazione di quarantamila persone, che vive sparsa tra lo stato di New York, negli Usa, e le regioni di Ontario e Quebec, nel Canada.
È la nazione irochese, che ha diritto di partecipare ai campionati del mondo alla stregua di ogni altro stato nazionale. È uno dei rari casi in cui lo sport dà rappresentanza ai popoli più di quanto facciano le organizzazioni internazionali: era accaduto, alle Olimpiadi di Sidney, con gli atleti di Timor Est, etnia senza bandiera dell’Indonesia, e fu un evento di cui tutto il mondo ebbe notizia, al contrario della partecipazione degli Iroquois Nationals ai campionati del mondo di lacrosse di Baltimora, nel 1998.
Se non bastasse, è uno degli sport più antichi del mondo, sicuramente il più antico che si conosca nel Nordamerica. Fu il missionario gesuita Jean de Brebeuf a darne per primo notizia, documentando una sfida tra due squadre Huron, nell’attuale Sud-Est dell’Ontario, nel 1636. All’epoca, almeno 48 tribù di nativi americani praticavano una qualche forma di lacrosse. Ma a renderlo unico è la leggenda indiana, che ne narra le origini e che descrive il lacrosse come un dono del Creatore. È un privilegio che nessuno sport può vantare, nemmeno l’atletica leggera, che si conosce essere derivata dai giochi di Olimpia, sacri sì, ma umani, degli antichi greci.
Il lacrosse, dunque, è un dono divino, da giocare per la gioia del Creatore e come medicina per curare gli uomini. Il suo significato è ricordare che ogni individuo, o meglio ogni creatura, che sia grande o piccola, ha un significato e contribuisce al ciclo della vita. Per dimostrarlo, gli Haudenosaunee narravano una storia, che veniva tramandata di padre in figlio e che raccontava della grande partita che si giocò tra la squadra degli animali a quattro zampe e quella degli uccelli alati. Per gli animali a quattro zampe, i capitani erano l’orso,la cui potenza sovrasta ogni avversario, il cervo, la cui velocità unita all’abilità di fermarsi e ripartire subito lo rendevano prezioso e la tartaruga, in grado di resistere e di avanzare indisturbata qualunque fosse la potenza dei colpi degli avversari. Per gli uccelli alati, i capitani erano la civetta, capace di tenere fisso l’occhio sulla palla a qualunque velocità e in qualunque direzione essa viaggiasse, il falco e l’aquila, entrambi rimarchevoli per il volo veloce e potente insieme.
Mentre gli uccelli si stavano preparando per la partita, vennero al loro albero due piccoli animali, un topo e uno scoiattolo, che chiesero ai tre capitani di essere ammessi nella loro squadra: “Impossibile” disse l’aquila “dovreste piuttosto giocare con i nostri avversari. Perché non chiedete a loro?”. Era quello che avevamo fatto, risposero i due animaletti, ma erano stati mandati via tra le risate di scherno: come avrebbero potuto, loro così piccoli, essere di aiuto agli altri animali a quattro zampe? I capitani della squadra degli uccelli si mossero a pietà, ma restava un ostacolo: il topo e lo scoiattolo non potevano giocare tra gli alati semplicemente perché non avevano le ali. Aquila, falco e civetta decisero però di trovare un modo per fabbricarle. Una felice ispirazione fece venire in mente ai capitani che la pelle dei tamburi usati per le assemblee e cerimonie poteva essere una buona materia prima. Così, modellando la pelle ad arte e attaccandola alle zampe del topolino, fu originato il pipistrello. I tre capitani lanciarono in aria la palla e chiesero al pipistrello di andare a prenderla. Lui fu così bravo a tenerla sempre in movimento, senza che toccasse terra, che si convinsero di aver trovato un ottimo alleato.
Restava lo scoiattolo, a cui però non si potevano più fabbricare le ali allo stesso modo, perché la pelle del tamburo era finita e non restava più tempo per cercarne un altro. Poco prima che venisse il momento per cominciare la partita, però, ai capitani venne in mente che forse bastava allungare ed allargare la pelliccia dello scoiattolo stesso intorno alle sue zampe, per creare qualcosa di simile alle ali. E così fu ideato lo scoiattolo volante, che venne accettato in squadra, così come era accaduto al pipistrello.
La partita cominciò, con l’aquila e l’orso che si contendevano la palla. Dallo scontro, la palla schizzò via e fu lo scoitattolo volante il più veloce a prenderla: la portò fino ai rami più alti di un albero e la passò al falco che la tenne in aria prima di passarla all’aquila che ne conquistò il possesso poco prima che toccasse terra. L’aquila volò veloce, così veloce che nemmeno il cervo riuscì a raggiungerla. Poi fintò un passaggio allo scoiattolo ma fece arrivare la palla al pipistrello che s’infilò tra gli avversari e segnò il punto che diede la vittoria agli uccelli alati.
La lezione, dicevano gli antenati Haudenosaunee, era semplice: non importa quanto una persona cada in basso fino a sentirsi inutile. Un giorno quella persona potrà mostrare le qualità per dare un aiuto indispensabile agli altri. E questo è lo spirito del lacrosse: bisogna essere umili e di buon animo, quando si ha in mano il bastone con la retina per iniziare la partita. Ecco un messaggio che ancora si trova nel sito internet degli Iroquois Nationals:
“Il lacrosse non dovrebbe esser giocato per soldi, fama o vantaggi personali. Prima di ogni partita ai giocatori viene ricordata la ragione della loro presenza: la gioia del nostro Creatore che ha donato a tutti gli uomini questo gioco chiamato dehonchigwiis”
Testo di Giampiero Canneddu