Pubblicata sabato, 23 aprile '05
In religione come in guerra, l'indiano d'America era un individualista. Non aveva né un esercito nazionale né una chiesa organizzata. Non c'erano sacerdoti che potessero assumersi la responsabilità dell'anima di un altro. Noi ritenevamo che ciò fosse il dovere supremo del genitore, l'unica persona che potesse in certo grado rivendicare l'ufficio e la funzione sacerdotale, poiché il suo potere di creare e proteggere è il solo che si avvicini alla solenne funzione della Divinità.
L'indiano era un uomo religioso fin dal ventre di sua madre. Dal momento in cui ella si accorgeva del concepimento sino alla fine del secondo anno di vita, ossia la normale durata dell'allattamento, noi eravamo persuasi che l'influsso spirituale della madre contasse più di ogni altra cosa. Il suo comportamento e le sue meditazioni segrete dovevano essere tali da infondere nell'animo ricettivo del bambino non ancora nato l'amore per il Grande Mistero e un senso di fratellanza con tutta la creazione.
Silenzio e isolamento sono le regole di vita della donna incinta. Ella vaga in preghiera nella pace della foresta o nel seno delle praterie solitarie e nella sua mente poetica la nascita imminente del suo bambino prefigura l'avvento di un grande uomo - un eroe o una madre di eroi - un pensiero concepito nel vergine grembo della natura primigenia e sognato in una quiete spezzata solo dal sospiro del pino o dalla musica emozionante di una cascata lontana.
E quando sorge per lei il giorno dei giorni, quello in cui apparirà una nuova vita, la cui miracolosa fattura le è stata affidata, ella non cerca aiuto umano. Da sempre, fin dove giungono i suoi ricordi, nel corpo e nella mente, è stata educata e preparata a questo, il suo compito più sacro. È meglio affrontare l'aspra prova in solitudine, dove non ci sia ad imbarazzarla nessun occhio curioso o impietosito; dove la natura tutta possa annunciare al suo spirito: "È l'amore! È l'amore". Quando dal silenzio le giunge una voce sacra, e quando due occhi si dischiudono a guardarla nella vastità della natura, ella apprende con gioia di aver assolto al suo compito nel canto sublime della creazione!
Subito dopo fa ritorno all’accampamento reggendo il sacro, misterioso, amatissimo fardello. Sente il tenero calore, ode il dolce respiro. Esso è ancora parte di lei poiché entrambi si nutrono del medesimo boccone, e nessuno sguardo d’amante potrebbe essere più dolce del suo, profondo e pieno di fiducia.
Ella prosegue il suo insegnamento spirituale dapprima in silenzio – un semplice puntare l’indice alla natura; poi, il mattino e la sera, con canti sussurrati che ricordano quelli degli uccelli. Per lei e per il suo bambino gli uccelli sono persone vere e proprie, che vivono molto vicine al Grande Mistero; il fruscio degli alberi mormora la sua presenza; le acque ruscellanti cantano le Sue lodi.
Se il bimbo fa i capricci, la madre leva la mano. “Zitto! Zitto!” lo ammonisce teneramente “Puoi disturbare gli spiriti”. Lo invita al silenzio e all’ascolto – all’ascolto della voce argentina del pioppo, dei fragorosi cembali della betulla; e quando si fa notte indica la celeste scia punteggiata di bianco che attraversa la fulgida galassia della natura.
Silenzio, amore, reverenza – questa è la trinità dei primi insegnamenti; e più tardi ella vi aggiunge generosità, coraggio e castità.
Nei tempi passati le nostre madri si dedicavano anima e corpo al compito loro affidato; e come un famoso capo della nostra gente soleva dire: “Gli uomini possono ammazzarsi l’un l’altro ma non potranno mai sopraffare la donna, poiché nella pace del suo grembo giace il bambino! Lo puoi uccidere e uccidere di nuovo ma ogni volta egli rinascerà dal medesimo grembo gentile – un dono del Grande Bene alla razza, cui l’uomo partecipa solo come subalterno”.
Questa madre primitiva non ha per guida solo l’esperienza di sua madre e di sua nonna, e le regole accettate dal suo popolo, ma cerca umilmente di imparare dalle formiche, dalle api, dai ragni, dai castori, dai tassi. Studia la vita familiare degli uccelli, così squisita nella sua intensità emotiva e nella sua paziente dedizione finché non le pare di sentire il cuore materno universale battere nel suo stesso petto. A suo tempo il bambino si accosta spontaneamente alla preghiera e parla con reverenza delle Potenze. Egli è convinto d’essere fratello di sangue di tutte le creature viventi, e il vento di tempesta è per lui un araldo del “Grande Mistero”.
Se il bambino è maschio, quando arriva all’età di circa otto anni ella lo consegna al padre perché riceva un’educazione più spartana. Se è una bambina, da questo momento sarà affidata soprattutto alla custodia della nonna che è considerata la più degna tutrice di una fanciulla. In verità, il compito specifico d’entrambi i nonni è quello di far conoscere al giovane le tradizioni e le credenze del nostro popolo. A loro spetta recitare con dignità e autorevolezza le leggende consacrate dal tempo, così da far entrare il bambino in dimestichezza col retaggio che la saggezza e l’esperienza della sua razza hanno messo in serbo. I vecchi sono votati al servizio dei giovani in qualità di maestri e consiglieri, e i giovani, dal canto loro, li guardano con amore e reverenza. La vecchiaia, presso di noi, era per certi versi il periodo più felice della vita. L’avanzare degli anni portava con sé molta libertà, non solo dal fardello dei compiti stancanti e pericolosi, ma anche da quelle restrizioni nelle consuetudini e nel contegno che erano religiosamente osservate da tutti gli altri.
Nessuno di coloro che hanno conosciuto gli indiani a casa loro può negare che siamo un popolo cortese. Di norma, il guerriero che incuteva grandissimo terrore nei cuori dei suoi nemici, in famiglia e tra gli amici era una persona di gentilezza esemplare e di raffinatezza quasi femminile. Nell’uomo una voce dolce e pacata era apprezzata quanto nella donna. L’intimità forzata della vita nella tenda sarebbe diventata ben presto intollerabile, non fosse stato per questo rispetto per il posto stabilito e per gli averi di ogni altro membro del gruppo familiare e per la tranquillità, l’ordine e il decoro consueti.
Il nostro popolo, benché capace di sentimenti intensi e duraturi, non era mai espansivo, tanto meno in presenza di ospiti o di forestieri. Solo ai vecchi, che hanno fatto tanta strada e sono in certo modo esonerati dalle regole comuni, è concesso qualche giocoso gesto di affetto verso figli e nipoti, oltre che parlare senza peli sulla lingua, al limite della durezza e dell’aspro rimprovero, una cosa rigidamente vietata. Insomma, gli anziani hanno il privilegio di dire quello che vogliono come vogliono, senza che nessuno li contraddica, mentre le sofferenze e le infermità che necessariamente li affliggono vengono per quanto possibile attenuate dalla sollecitudine e dalla considerazione di tutti.
Presso di noi non esisteva una cerimonia religiosa collegata al matrimonio, ma, d’altro canto, l’unione tra uomo e donna era considerata in sé misteriosa e sacra. Si direbbe che là dove il matrimonio viene celebrato dalla chiesa e benedetto dal sacerdote, esso possa essere al tempo stesso attorniato da abitudini e da convincimenti futili, superficiali e addirittura lascivi. Noi eravamo dell’idea che i due innamorati prima del riconoscimento pubblico dovessero unirsi in segreto, e assaporare la loro apoteosi soli con la natura. Indipendentemente dal fatto che la promessa di matrimonio fosse discussa e approvata dai genitori, era consuetudine che la giovane coppia scomparisse in una zona deserta pre trascorrervi alcuni giorni o alcune settimane completamente appartata in una solitudine a due, per poi ritornare al villaggio come marito e moglie. Di solito seguivano festeggiamenti e uno scambio di doni tra le due famiglie, ma la benedizione nuziale era impartita dal Sommo Sacerdote di Dio, la venerabile e sacra Natura.
La famiglia non era soltanto l’unità sociale ma anche l’unità di governo. Il clan non è altro che una famiglia allargata, e il patriarca ne è il capo naturale; dall’unione di più clan, per matrimonio o per parentela volontaria, ha origine la tribù. Il nome stesso della nostra tribù, Dakota, significa gli Alleati. I gradi più remoti di parentela erano pienamente riconosciuti, e non solo formalmente: i primi cugini erano considerati alla stregua di fratelli e sorelle; la parola cugino implicava un diritto vincolante, e la nostra rigida moralità vietava il matrimonio tra cugini di ogni grado accertato ovvero, in altri termini, all’interno del clan.
La famiglia vera e propria consisteva in un uomo con una o più mogli e i loro figli, e tutti quanti abitavano amichevolmente insieme, spesso sotto il medesimo tetto, benché a volte gli uomini di rango elevato provvedevano ad alloggi separati per le diverse mogli. In realtà, c’erano pochi matrimoni plurimi, salvo tra gli anziani e i capi, e in questo caso le mogli erano quasi sempre, anche se non necessariamente, sorelle fra loro. Per fondati motivi un matrimonio poteva essere sciolto onorevolmente, ma l’infedeltà e l’immoralità, sia palesi che clandestine, erano molto poco frequenti.
È stato detto che la posizione della donna è la prova della civiltà di un popolo, e quella delle nostre donne era solida. Esse erano depositarie dei nostri principi morali e della purezza del nostro sangue. La moglie non prendeva il nome del marito né entrava a far parte del suo clan, e i bambini appartenevano al clan materno. Disponeva di tutti i beni familiari; la modestia era il suo principale ornamento; perciò le giovani erano di solito silenziose e schive ma una donna che fosse giunta alla piena maturità per anni e saggezza o che avesse dato prova di considerevole coraggio in una situazione critica, a volte, veniva invitata a prender posto nel consiglio.
Così ella dominava incontrastata nel proprio regno, ed era per noi la rocca della forza morale e spirituale, finché il pioniere bianco, soldato o commerciante, non intaccò con le bevande alcoliche l’onore degli uomini e usando del suo potere sui mariti fiaccati non comprò la virtù delle loro mogli e delle loro figlie. Quando la donna cadde, cadde con loro la razza intera.
Prima che questa calamità si abbattesse su di noi, non si poteva trovare focolare più felice di quello creato dalla donna indiana. Nella sua persona non c’era nulla di artificiale, né c’era molta ipocrisia nel suo carattere. La sua educazione precoce e coerente, la sua ben determinata vocazione e, soprattutto, la sua profonda religiosità le davano una forza e un equilibrio che le comuni avversità non potevano sopraffare.
I nomi indiani erano nomignoli caratteristici dati con spirito giocoso, oppure traevano origine dalle gesta compiute o dalle circostanze della nascita o ancora avevano un significato religioso o simbolico. È stato detto che quando un bambino viene al mondo, certe fatalità o apparizioni insolite determinano il suo nome. A volte è così ma questa non è la regola. Un uomo di forte carattere che si sia distinto in guerra porta di solito il nome del bufalo o dell’orso, del fulmine o di un’altra terrificante forza naturale. Uno di indole più mite può chiamarsi Uccello Veloce o Cavallo Azzurro. I nomi femminili suggerivano abitualmente qualcosa di domestico, spesso accompagnati da un aggettivo come graziosa o buona, e avevano desinenze femminili. I nomi più solenni e importanti dovevano essere impartiti dagli anziani, specialmente se avevano un qualche significato spirituale, come Nuvola Sacra, Notte Misteriosa, Donna Spirito eccetera. A volte, simili nomi si trasmettevano per tre generazioni ma chi li portava doveva dimostrare individualmente di esserne degno.
Nella vita dell’indiano c’era un solo dovere ineludibile, il dovere della preghiera – la giornaliera espressione di riconoscenza all’Invisibile e all’Eterno. Le orazioni gli erano più necessarie del cibo quotidiano. Egli si sveglia al levar del giorno, calza i mocassini e scende sulla riva. Lì si spruzza l’acqua limpida e fresca sul viso, oppure vi si immerge per intero. Dopo il bagno, in piedi di fronte all’alba che sopraggiunge, il viso rivolto verso il sole che danza all’orizzonte, offre la sua muta preghiera. La sua compagna può precederlo o seguirlo in questo rito, ma non è mai con lui. Ogni anima deve incontrare da sola il sole mattutino, la nuova, dolce terra e il Grande Silenzio.
Quando, nel corso della caccia quotidiana, il cacciatore indiano s’imbatte in una veduta di eccezionale o sublime bellezza – una nera nuvola temporalesca e la splendente arcata dell’arcobaleno sopra la montagna; una cascata candida nel cuore di una gola verde; una prateria sterminata, tinta dal rosso sanguigno del tramonto – si ferma un attimo in adorazione. Egli non vede la necessità di distinguere un giorno dagli altri sette perché sacro: per lui tutti i giorni sono divini.
Ogni azione della sua vita è un atto religioso, in un senso molto concreto. Egli riconosce lo spirito in tutta la creazione, ed è convinto di trarre da esso potere spirituale. Spesso il suo rispetto per la parte immortale dell’animale, suo fratello, lo spinge addirittura a comporre le spoglie della sua preda con grande solennità e a decorarne la testa con piume e pitture simboliche. Quindi gli si mette davanti, in piedi, nell’atteggiamento della preghiera, e alza la pipa colma per provare di aver liberato con onore lo spirito di suo fratello, del cui corpo si è dovuto impossessare per provvedere alla propria vita.
Al momento del desinare, la donna porge la pentola e mormora una preghiera di ringraziamento con tanta delicatezza e discrezione che a chi non conosce questa usanza, di solito sfugge il sussurro: ”Spirito, prendi!”. Allo stesso modo il marito, mentre riceve la ciotola o il piatto, mormora la sua invocazione allo spirito. Quando diventa vecchio, ama manifestare la propria gratitudine con un gesto appariscente: taglia il boccone migliore dal pezzo di carne e lo getta nel fuoco – il più puro ed etereo degli elementi.
Solo lo stato di guerra pone un limite all’ospitalità del wigwam. Ma se un nemico dovesse onorarci di una visita, la sua fiducia non sarà mal risposta ed egli se ne andrà convinto di avere incontrato un ospite regale. La garanzia della sua sicurezza, finché egli rimane all’interno dell’accampamento, è il nostro onore.
L’amicizia è considerata la più severa prova del carattere. Noi crediamo che sia facile essere leali coi membri della famiglia e del clan, il cui sangue scorre nelle nostre vene. L’amore tra uomo e donna è fondato sull’istinto della procreazione e non è immune da desiderio ed egoismo. Ma avere un amico ed essergli fedele in ogni momento difficile, è ciò che distingue un uomo.
Il sommo grado dell’amicizia è il rapporto di amico-fratello e amico-per-la-vita-e-per-la-morte. Questo è in legame tra uomo e uomo che di solito ha origine nella prima giovinezza.e può essere spezzato solo dalla morte. È la quintessenza del cameratismo e dell’amore fraterno, improntato non al piacere né all’interesse, bensì al sostegno e all’ispirazione morale. Ciascuno si vota a morire per l’altro, se così deve essere, e nulla viene negato all’amico-fratello, ma nulla è richiesto che non sia in accordo con le più elevate concezioni della mentalità indiana.