Pubblicata domenica, 1 luglio '07
Prima dell'arrivo dell'uomo bianco, la vasta, magnifica e relativamente disabitata regione oggi appartenente agli Stati Uniti era popolata da circa 12 milioni di Indiani, suddivisi in 600 gruppi sociali e sparsi ovunque: dalle sterili distese di ghiaccio dell'estremo Nord alle torride paludi del Sud, dalle grandi foreste orientali ai deserti, le pianure e le montagne occidentali.
Queste tribù vivevano in equilibrio con se stesse e con la natura, un equilibrio raggiunto faticosamente nel corso dei millenni, fin dalle ere neolitica e paleolitica, quando gli Indiani iniziarono a occupare il continente.
L'impatto della conquista culturale da parte dell'uomo bianco è stato inizialmente corrosivo e alla lunga disastroso.
Dopo quattro secoli di guerre quasi ininterrotte, dal 1500 al 1900 circa, la popolazione indiana si è ridotta a meno di 400.000 individui.
Privati delle loro terre, gli Indiani sono stati in gran parte confinati nelle riserve degli USA occidentali, costretti a subire il disinteresse, la cattiva amministrazione dei loro affari o le leggi discriminatorie dei fanatici bianchi, per non parlare dell'avidità di terre da parte delle grandi agenzie sostenute dal Senato federale.
Tuttavia, gli Indiani hanno rinunciato, seppur con amarezza, solo agli aspetti materiali.
Come rileva John Collier, uno dei migliori storici sull' argomento, essi non si sono mai fatti completamente schiavizzare dai loro conquistatori:
«alla fine, si sono arresi solo alla sopraffazione fisica... La loro identità sociale è rimasta integra, anzi, ha addirittura acuito la consapevolezza di sé.
Non ci si deve stupire se gli Indiani a Nord del Rio Grande continuano a risvegliare una strana ma personale eccitazione nell'anima dell'uomo bianco!
Essi ci parlano dalla nostra dimora ancestrale e fanno riecheggiare la parte eterna e immutabile del nostro io, imprigionato e relegato nella modernità così come, un secolo fa, le società indiane sono state da noi confinate e relegate...».
Perciò, gli Indiani hanno perso le loro sostanze ma salvato la loro anima.
Il danno permanente lo hanno causato a se stessi i conquistatori: nei quattro secoli della Grande Guerra di conquista, i bianchi hanno scritto una pagina talmente nera della loro storia da non poterla mai cancellare.
La conquista è spiegabile con l'inesorabile progresso storico, ma la maniera in cui è stata realizzata non può essere assolutamente giustificata.
Dalle prime atrocità compiute dagli esploratori e colonizzatori spagnoli, francesi e inglesi fino all'orribile massacro di donne e bambini a Wounded Knee, avvenuto nel 1890, la guerra dell'uomo bianco contro gli Indiani è paragonabile, pur essendo di portata minore, alle stragi eseguite mediante le sofisticate armi tecnologiche del xx secolo.
Uno degli obiettivi dei primi esploratori del continente americano – che sarebbe assurto a simbolo internazionale di libertà – era la deportazione degli schiavi indiani, sia come esemplari curiosi sia come prova dell'avvenuta esplorazione, oltre che per farli lavorare nelle miniere europee.
La strada venne tracciata fin dal primo incontro fra gli indigeni e un esploratore europeo, come ce lo narra quest'ultimo.
Si tratta di Gaspar Corte Real (o Cortereal), un Portoghese nativo delle Azzorre che sbarcò sulle desolate coste nordamericane in due occasioni, nel 1500 e 1501.
Una volta, catturò 57 (o 60, a seconda delle fonti) Indiani, che intendeva vendere ai mercanti di schiavi.
Questo nobile scopo venne in gran parte frustrato sulla via del ritorno poiché durante una tempesta il vascello affondò e fece orribilmente naufragare tutti i prigionieri, incatenati nella stiva, tranne 7.
I sopravvissuti raggiunsero il Portogallo con un'altra nave insieme ai bianchi rapitori, che si dimostrarono talmente riconoscenti dell'ospitalità ricevuta dai "selvaggi" da battezzare la terra scoperta col nome di Labrador, che vuol dire "posto in cui abbonda il lavoro (e la manodopera)".
Parimenti istruttivo è il resoconto tramandatoci da Giovanni da Verrazzano, un navigatore fiorentino che salpò da Dieppe verso la fine del 1523 su ordine del re di Francia, Francesco I, per scoprire il passaggio occidentale verso il Catai.
Il mare in tempesta lo costrinse a riparare in Bretagna, da dove ripartì con una sola delle 4 caravelle, la Dauphine; il 7 marzo 1524 gettò l'ancora dove oggi sorge Wilmington, in North Carolina.
Gli Indiani che osservarono l'approdo di una delle scialuppe di Verrazzano fuggirono terrorizzati alla vista degli uomini bianchi, ma ebbero la forza di tornare ammirati sui loro passi, offrendo con larghi gesti amicizia e ospitalità.
Alcuni giorni dopo, mentre costeggiava verso nord, Verrazzano si rese conto di aver bisogno di acqua e mandò una scialuppa a terra, ma le onde erano tanto alte da impedire lo sbarco.
Sulla spiaggia, si era nuovamente radunato un piccolo gruppo di indigeni: un giovane e audace marinaio prese con sé perline e gingilli vari da barattare con loro, cominciando a nuotare verso riva ma, avvicinandosi, fu sopraffatto dal timore.
Allora, gettò i suoi doni ai selvaggi e fece per tornare verso la scialuppa.
Senonché, le onde erano troppo alte e lo ricacciarono a riva fra le braccia dei benevoli ospiti.
Più il giovane marinaio gridava dal terrore e più gli Indiani strillavano per rassicurarlo della loro benevolenza.
Accesero un falò sulla sabbia, ma il ragazzo, pensando che fossero cannibali, si impaurì ancora di più.
Quando si accorse che cercavano soltanto di riscaldarlo e di asciugargli i vestiti, riprese il controllo dei nervi e spiegò che voleva tornare alla barca.
Allora, gli Indiani lo accompagnarono in acqua, continua il resoconto, «con grande amore, abbracciandolo calorosamente e incoraggiandolo con pacche sulle spalle».
Stettero a osservarlo finché non giunse di nuovo salvo a bordo della Dauphine.
Sembra però che Verrazzano e i suoi uomini non abbiano colto tale buona disposizione.
Approdando di nuovo dalle parti della Virginia o del Maryland, essi ricevettero un'accoglienza un po' più cauta da parte di una donna anziana, una ragazza e alcuni bambini, i quali si nascondevano per timore nell'alta vegetazione costiera.
Con fredda brutalità, i marinai prima cercarono di accattivarsi la fiducia di questo gruppo di innocenti e poi rapirono uno dei bambini, come se fosse un trofeo di caccia.
In realtà, avrebbero preso con sé anche la giovane squaw, per sollazzarsi in seguito, ma costei pianse tanto da spaventarli e farli fuggire.
Dopo l'esplorazione della baia di New York, Verrazzano costeggiò Long Island, superò Block Island e raggiunse probabilmente il luogo in cui ora sorge Newport Harbor, dove fu accolto da due capi abbigliati con vesti variopinte e circondati da guerrieri.
Assomigliavano talmente a una corte europea che, nella sua descrizione, Verrazzano li chiama «re» e fa riferimento anche alle «regine» accompagnate dalle «ancelle», che i capi avevano messo prudentemente in un'altra canoa, ovvero in seconda fila per tenerle fuori della portata degli uomini bianchi.
Da questo momento, non si sente più parlare della grande ospitalità del Nuovo Mondo.
Arrivando nel New England, Verrazzano trova indigeni altrettanto ostili di quelli del litorale.
Ha scritto col suo solito stile asciutto e ironico lo storico Francis Parkman:
«Forse qualche sbandato avido di bottino nelle secche pescose, qualche ladro come il portoghese Cortereal o alcuni rapitori di bambini e stupratori di ragazze avevano fatto capire agli abitanti dei boschi che era meglio diffidare degli adoratori di Cristo».
Questi Indiani si limitavano a calare pellicce con un uncino dall'alto delle scogliere e a issare per baratto ami, coltelli e acciaio, dopo di che salutavano i visitatori con gesti e rumori poco urbani.
Quando cercarono di sbarcare i Francesi, gli indigeni li salutarono con una scarica di frecciate.
Quella fu l'ultima volta che Verrazzano e i suoi videro gli Indiani: la Dauphine si diresse verso Newfoundland (Terranova) e riprese la direzione di casa.
Sulla morte del navigatore italiano esistono diverse leggende, ma sarebbe generoso accettare quella secondo cui intraprese un altro viaggio e fu catturato dagli Indiani, che lo mangiarono mentre i suoi marinai non fecero nulla per salvarlo.
La storia vera testimonia che venne impiccato come pirata nel 1527.
Questi primi rapporti fra nativi ed esploratori bianchi che toccavano le frange del nuovo continente rappresentano l'anticipo, nemmeno troppo cruento, di quello che sarebbe successo in seguito.
Gli Indiani avevano accolto bene gli stranieri ma erano stati ripagati con la rapina e la riduzione in schiavitù.
Questi incidenti si erano però verificati in modo talmente sporadico lungo le sterminate coste americane che i nativi non si erano ancora organizzati per difendersi.
I primi a ispirare una diffidenza organizzata furono i famigerati avventurieri spagnoli, noti per la loro crudeltà e capacità truffaldina, la cui storia sanguinosa a sud del Rio Grande oggi tutti conoscono, ma che all'inizio del 1500 non aveva ancora attirato l'attenzione dei fiduciosi indigeni di Florida, Georgia e dell'entroterra del Golfo.
Qui gli Spagnoli iniziarono a penetrare onde perseguire la loro febbrile ricerca di oro e oggetti preziosi.
In effetti, la guerra dei 400 anni cominciò a partire da questi episodi di sangue.
Come preludio alle gesta future di Hernando de Soto, possono servire i misfatti di un oscuro comandante che rispondeva al nome di Lucas squez de Ayllon.
Nel medesimo anno in cui Verrazzano ciondolava sulla forca, Ayllon si impadroniva delle coste di Georgia e South Carolina, con le mani ancora sporche del sangue della popolazione di Haiti, da lui decimata: questa volta si accontentò di catturare un centinaio di Indiani da portare in Europa come schiavi e trasformare in minatori.
Tornando verso la base haitiana, un carico di schiavi subì il naufragio; i sopravvissuti creparono nei pozzi delle miniere.
Questa razzia causò indirettamente la morte di un uomo molto più celebre, il vecchio Ponce de Leòn, giunto in Florida 9 anni prima alla ricerca dell'elisir di giovinezza.
Durante quella spedizione, aveva mantenuto relazioni cordiali con gli indigeni ma, al ritorno, volle fondare una colonia, anche se nel frattempo essi avevano fatto esperienza di uomini bianchi come Ayllon e altri.
Minacciarono il nostalgico cercatore dell'elisir di non sbarcare ma lui ignorò l'avvertimento, non credendo che volessero fargli del male.
Allora, gli Indiani attaccarono, uccisero la maggioranza dei suoi accoliti e gli infersero una ferita mortale.
Ponce de León riuscì ad arrivare a Cuba, dove pochi giorni dopo finì ingloriosamente la sua vita, senza aver trovato il superstizioso elisir.
Quanto a Hernando de Soto, uno storico lo ha definito come un uomo «versato nell' arte di sterminare i nativi».
Non è un'esagerazione, per lui era un divertimento.
Nel periodo 1540-42, coprì a piedi la distanza tra Florida e Tennessee, fino al Mississippi, dedicandosi al suo sport preferito: rapire, depredare e assassinare gli indigeni, che tramandarono oralmente i suoi atti criminali, generando un odio inestinguibile per molte generazioni.
Si narra che, durante la conquista del Perù, sia stato lo stesso de Soto a cercare di fermare la mano di Pizarro che si abbatteva su Atahualpa, l'imperatore degli Inca.
Per il resto, non abbiamo notizie di onori da affiancare alla sua carriera di delitti.
De Soto sbarcò nell'odierna baia di Tampa con 620 uomini scelti e l'intenzione di compiere ogni cosa a maggior gloria di Dio.
«Questi devoti saccheggiatori», nota Parkman, «non potevano trascurare il benessere spirituale degli Indiani che erano venuti a depredare; oltre ai ferri per incatenarli e ai segugi per scovarli, avevano condotto con sé monaci e sacerdoti per salvare le loro anime».
Però, prima che i 311 saccheggiatori sopravvissuti raggiungessero la colonia spagnola sulla costa del Golfo, dopo tre anni di avventure, fra cui anche la sepoltura del loro capo in un'insenatura del tempestoso Mississippi, la spedizione poteva vantarsi di ben poche anime salvate; anzi, aveva brutalmente abusato della generosa ospitalità offerta dagli Indiani.
Una volta, in una zona dell'odierno Arkansas, de Soto volle offrire una dimostrazione di forza ai Nilco, colpevoli solamente di aver nutrito e dato riparo agli Spagnoli.
I suoi uomini attaccarono di notte il villaggio ancora immerso nel sonno, massacrando un centinaio di guerrieri prima che potessero scoccare una freccia.
Ad alcuni Indiani feriti venne concessa la possibilità di scappare affinché diffondessero la notizia agli altri villaggi, che così avrebbero avuto maggior rispetto degli Spagnoli.
Come concordano i vari resoconti storici, alcuni erano talmente zelanti da uccidere indiscriminatamente uomini, donne e bambini.
In Georgia, dove vivevano i Creek, una graziosa «principessa» della tribù, secondo quanto riportano le cronache, diede un caloroso benvenuto agli Spagnoli, e costoro ringraziarono prendendola in ostaggio.
Peraltro, questo era il comportamento tipico delle spedizioni ispaniche: arrivavano in un villaggio, accettavano l'ospitalità dei capitribù e poi li catturavano per proporre un baratto; seguiva l'incendio del villaggio e dei campi coltivati a grano.
Alcuni Indiani venivano ammanettati e ridotti in schiavitù, altri erano sottoposti a tortura per estorcergli delle informazioni.
Prima della fine della sua infame carriera, de Soto scoprì il Mississippi e, come ha osservato John Collier, «gli Indiani insediati nelle regioni che vanno dalla costa georgiana fin oltre il citato fiume avevano scoperto l'uomo bianco».
Comunque, non tutti i conquistadores erano così spietati.
Nel suo lungo viaggio verso le regioni sudoccidentali, Coronado mostrò sempre grande moderazione, sebbene non abbia risparmiato l'impiccagione alla guida indiana che lo accompagnava nella ricerca di un'inesistente mitica città dorata in Kansas.
Il suo esempio creò un'atmosfera di fattiva collaborazione che durò a lungo e influenzò in modo positivo i rapporti fra bianchi e Indiani in quell'angolo del continente.
Oggi, abbiamo la tendenza a immaginare questi avventurieri ispanici come crudeli cercatori d'oro, cosa che in effetti erano; ciononostante, non si deve pensare che avessero il monopolio della crudeltà e dell'inganno ai danni degli indigeni.
Ben prima degli insediamenti dei pionieri anglosassoni a Jamestown (1607), Richard Grenville avvistò nel 1585 le coste della Virginia e vi approdò con una flotta di 7 navi.
Dopo aver fatto sbarcare i suoi uomini, questo nobile inglese, un vero lupo di mare, penetrò nell'entroterra, fino al fiume Roanoke, e fu ricevuto ovunque con l'ospitalità che i nativi riservavano ai bianchi quando li vedevano per la prima volta.
Però, allorché un Indiano gli rubò una tazza d'argento, Grenville mise a ferro e fuoco il villaggio, facendo un congruo bottino.
(Grenville viene commemorato in quanto eroe della storia inglese per un unico atto di grande coraggio: con la sua piccola nave, la Revenge, affrontò l'intera flotta spagnola al largo delle Azzorre e tenne duro prima di affondare in una gloriosa sconfitta).
Dal punto di vista storico, questi primi contatti fra Indiani e uomini bianchi, avvenuti lungo la costa atlantica e nelle contrade sudorientali, non furono particolarmente significativi, se non fosse per il fatto che hanno acceso una fiamma che sarebbe divampata per quattro secoli.
Le ricche nazioni indiane erano perlopiù pacifiche, eccezion fatta per alcune scaramucce intestine, ma si accorsero ben presto dell' inaffidabilità degli invasori bianchi, che non volevano tranquilli rapporti commerciali, ma solo la bruta conquista.
Eppure, ancora non poteva dirsi vera guerra.
Per dare avvio all'apparentemente infinita contesa occorrevano due ulteriori sviluppi: innanzitutto, la creazione di una frontiera, ossia il crinale del fronte di battaglia.
La fondazione delle colonie permanenti di Jamestown e Plymouth ha segnato lo spartiacque: fu allora che gli Indiani si resero conto che i bianchi non erano venuti per esplorare ma per insediarsi definitivamente, e non solo nei villaggi iniziali bensì perfino nei territori che possedevano da secoli.
L'altro sviluppo necessario si creò autonomamente a causa dei dissidi fra le nazionalità europee, che iniziarono presto a scontrarsi fra di loro per il possesso del continente.
In America settentrionale, ciò si materializzò nella gigantesca battaglia ingaggiata tra Francia e Inghilterra.
Per quanto riguardava gli Indiani, la strategia principale delle due nazioni europee era paurosamente semplice: essendo troppo pochi, almeno per un centinaio di anni, per combattersi a vicenda, tanto meno capaci di sconfiggere le nazioni indigene, che li avrebbero sopraffatti numericamente, Francesi e Inglesi corteggiarono le diverse tribù, alleandosi con loro e usandole per combattere le proprie battaglie.
Tale strategia si è dimostrata molto efficace, malgrado a volte sia stata perseguita con atroce inettitudine.
Dapprima invischiate nelle infinite schermaglie che condussero al conflitto franco-indiano, poi nei 7 anni di durata di tale conflitto, in seguito nella Rivoluzione americana, e infine nella guerra del 1812, le nazioni indigene si ritrovarono non solo private delle ricompense spettanti ai vincitori, ma perfino sconfitte nella battaglia vitale per la difesa della frontiera.
La grande avanzata verso occidente era in pieno svolgimento; a oriente del Mississippi era tutto perduto.
Rimanevano soltanto le ultime sacche di resistenza nei territori occidentali, che non potevano garantire altro che azioni di retroguardia, benché alcuni capi indiani sognassero ancora di ricacciare gli invasori bianchi nelle loro città orientali.
Nei quattro secoli che ci vollero per realizzare la sconfitta definitiva degli Indiani, emersero in entrambi i campi dei magnifici condottieri.
Non si deve credere che tutti i comandanti bianchi fossero dei mascalzoni, né che i capitribù indiani guidassero un esercito composto solo da eroi.
I contendenti appresero uno dall'altro nuovi tipi di combattimento.
La conquista ha implicato situazioni di enorme tragicità, ma il tutto non può essere disgiunto dai sentimenti dei protagonisti, né da un certo spirito beffardo.
Principalmente, però, dalla spettacolare sconfitta di un intero popolo affiora un nobile elemento spirituale.