Pubblicata domenica, 24 agosto '08
Nonostante il fatto che le popolazioni americane siano sempre state considerate dagli Europei poco più che selvagge, gli abitanti dell’America del Nord e quelli dell’Amazzonia hanno dato vita a un patrimonio culturale altrettanto ricco e vario di quello prodotto dalla Mesoamerica .
Mentre nell’America del Sud si erano andati formando gli Imperi del Sole, con le loro complicate strutture sociali, l’America del Nord vide lo sviluppo di una cultura tribale relativamente omogenea, nonostante le differenze di lingua e di abitudini maturate tra i vari gruppi. All’interno d’ogni singola tribù, la mentalità sociale fu sempre improntata ad un pensiero libertario e democratico, cosa possibile solo perché un relativamente piccolo numero di esseri umani viveva s’un territorio vasto e ricco dal punto di vista alimentare. Un sostanziale equilibrio ecologico venne sempre mantenuto, fino all’arrivo dell’uomo bianco, grazie alla mentalità di conservazione e rispetto delle risorse naturali, che tutte le tribù pellirosse applicavano con solerzia. Alcuni gruppi appresero la tecnica dell’agricoltura, forse attraverso gli scambi commerciali con le civiltà del Sud, ma una larga parte rimase sempre nomade con un’economia a base di caccia e raccolta dei vegetali. Non mancavano le tecniche raffinate come quella della concia delle pelli, la lavorazione della pietra per la fabbricazione di utensili, l’intreccio del vimini, il modellaggio della ceramica. Presso tutte le tribù, il sistema decisionale passava attraverso il consiglio degli anziani, ma nessun partecipante era vincolato dalle decisioni prese in tale sede. Il capo-tribù era di carattere elettivo e veniva prescelto in base alle sue doti di coraggio e saggezza, sebbene le sue funzioni fossero soltanto di portavoce della comunità (vedi bibl.: Storia degli Indiani d’America). Gli anziani erano considerati depositari della storia e della saggezza del popolo e venivano tenuti in gran conto, soprattutto perché ce n’erano pochi. I giovani venivano lasciati liberi di mostrare il loro valore attraverso prove d’iniziazione a volte difficili e dolorose ma mai obbligatorie (vedi bibl.: I Sioux). La guerra, infatti, era quasi sempre rituale e si basava soprattutto sull’acquisizione di punti da parte dei contendenti. Ogni guerriero disponeva di un bastone con il quale era sufficiente toccare l’avversario per causarne la squalifica e acquisire punteggio. Gli scontri veri e propri erano abbastanza rari, sebbene non completamente assenti, ma si trattava principalmente di tentativi di razzia a danno di altre tribù.
Tutte le varie categorie sociali godevano di grande rispetto: i bambini venivano educati con l’esempio ed erano addestrati con attenzione da tutti i parenti della famiglia materna. I termini corrispondenti a madre e padre indicavano anche gli zii, i nonni e tutti gli adulti che in un qualche modo si occupavano dei giovani (vedi bibl.: Storia degli Indiani d’America). Presso le tribù pellirosse, le donne godevano di uno stato di pari dignità con la componente maschile della tribù, sebbene non mancasse una netta divisione dei compiti nel lavoro quotidiano. Presso gli Algonchini, esisteva una istituzione, detta il Consiglio delle Madri, che i rappresentanti del Gran Consiglio Tribale erano obbligati a consultare prima di prendere decisioni (vedi bibl.: Storia degli Indiani d’America). Presso i Lakota, gli uomini erano tenuti a sentire l’opinione delle loro donne prima di prendere una decisione importante per la collettività (vedi bibl.: I Sioux). I giovani crescevano nella famiglia della madre, dove in genere ad occuparsi di loro erano tutti gli adulti, al punto che le parole corrispondenti a madre e padre potevano indicare tutti i parenti in linea materna (vedi bibl.: I Navajo). Inoltre la leggenda sioux della Donna Bisonte Bianco mette in luce come il ruolo di civilizzatore fosse attribuito ad un personaggio femminile (vedi bibl.: I Sioux).
Alcuni costumi, diffusi presso quasi tutte le tribù, sono facilmente paragonabili a quelli arcaici dell’Asia Centrale: piume e penne come ornamento; i pittogrammi quale metodo di scrittura; il rituale della scarnificazione dei defunti prima del seppellimento; il Culto degli Antenati; il Grande Spirito della Natura; i grandi vasi di ceramica grigia con la parte superiore appuntita, fabbricati ancora oggi dai Navajo (vedi bibl.: Storia degli Indiani d’America e Navajo). Tutte tradizioni probabilmente importate con le migrazioni attraverso lo stretto di Bering, che popolarono il continente americano 30.000 a.C. (vedi bibl.: Olmechi). Codeste eredità comuni vennero, poi, elaborate indipendentemente dalle singole tribù, creando elementi distintivi, che nel complesso agli stranieri possono apparire soltanto dei dettagli. Insieme all’agricoltura vennero introdotte anche alcune usanze provenienti dal Sudamerica: presso i Pawnee, agricoltori semistanziali, avevano ereditato il culto della Donna del Mais, divinità ispirata dalle dee madri del Mexico, e in primavera si praticava la cerimonia in onore del pianeta Venere, in cui veniva sacrificata una giovane vergine. Strutture stabili specifiche per il culto non ne venivano costruite, non vi erano edifici destinati a tale scopo, ma le cerimonie religiose, che per altro erano molto numerose, avvenivano all’aperto negli spiazzi in terra battuta appositamente riservati al centro dell’accampamento, indicati da sculture in legno a carattere rituale (vedi bibl.: Storia degli Indiani d’America), oppure in una grande capanna comune costruita con legno e frasche. Le cerimonie non erano mai in onore di un qualche dio, ma piuttosto servivano a contattare gli spiriti, ai quali si chiedeva aiuto e protezione. Presso i Sioux, prima di ogni rito si procedeva ad un bagno di vapore, perché ripulisse il corpo da tutte le impurità. Nessun adulto era mai escluso dalle cerimonie tribali, guidate da persone considerate particolarmente dotate nel contattare gli spiriti. I giovani guerrieri venivano considerati adulti solo dopo una prova di digiuno e meditazione, che forse comprendeva l’uso di qualche leggero allucinogeno naturale, intesa a ottenere un contatto con lo spirito guida, solitamente quello di qualche specie animale (vedi bibl.: I Sioux). Nel complesso, però, la spiritualità pellirosse sembra non aver mai superato il primo stadio naturalistico, esattamente come la loro civiltà non ha mai completamente abbandonato il nomadismo per l’agricoltura.
I SIOUX
Le usanze religiose dei Sioux ci sono state largamente spiegate da loro stessi, attraverso i racconti trascritti qualche volta da europei ma spesso anche da individui di cultura mista. Furono tra gli ultimi popoli pellirosse, venuti a contatto con la terribile realtà dell’uomo bianco, e le loro cerimonie vennero proibite solo nel 1870, permettendo così agli etnologi di stilarne una relazione accurata. Inoltre, occorre dire che la loro spiritualità non fu mai estirpata del tutto ed è rimasta latente, in attesa di tempi più propizi. Infatti, recentemente le tribù Sioux hanno ottenuto il permesso di ripristinare le loro usanze sacre dal Governo degli USA.
Alla base di tutta la spiritualità sioux esisteva una forza generale, che animava ogni cosa, come il Mana dei Maori, chiamata Wakan, specie di frammentazione del Grande Spirito della Natura, Wakan Tanka (il Grande Mistero). Fenomeni naturali come il vento, le stelle o la nascita di un bambino venivano considerati Woniya o Respiro del Grande Mistero. La luna e il sole, pur essendo entità separate con nomi propri, Hanwi e Wi, erano frammenti del Grande Spirito. Wakan Tanka poteva essere suddiviso in 16 aspetti differenti. I Sioux conferivano grande valore anche a Nonna Terra e alle 4 direzioni, ovvero ai punti cardinali. Infatti, la concezione della vita era basata sulla scelta tra due vie, una che corre da nord a sud e l’altra da est a ovest: il Sud era considerato di colore bianco, Fonte di vita; il Nord rosso, la Purezza; Est giallo, il Rinnovamento; Ovest nero, la Morte. La direzione nord-sud veniva identificata con la Via Lattea, alla cui biforcazione meridionale l’anima di ogni essere umano sottostava a un giudizio, per poter proseguire il suo cammino spirituale. In caso contrario era costretto a ritornare a vivere. Esisteva, quindi, un concetto di reincarnazione, kini (vedi bibl.: I Sioux), non molto dissimile da quella jainaita, poi ereditata dall’Hinduismo (vedi bibl.: L’Hinduismo).
L’oggetto sacro per eccellenza era la Pipa. Secondo il grande sciamano oglala Dito, questo oggetto venne donato ai Sioux da Wohpe, la donna bisonte bianco, che istituì anche le sette cerimonie sacre. La Pipa Sacra è divisa in due parti, cannello e fornello, l’uno ricavato da legno di acero e il secondo da una pietra rossa, la catlinite, reperibile in un unico posto al mondo, Pipestone nel Minnesota. Le due parti vanno conservate separatamente in una custodia di pelle di cervo ornata da perline colorate e aculei di porcospino, per via del grande potere in essa racchiuso. L’atto di collegare i due elementi corrisponde a una cerimonia sacra, l’unione di Cielo e Terra, tra il mondo fisico e quello metafisico. Il combustibile è rappresentato da corteccia di salice rosso, a cui in alcuni casi vengono aggiunti tabacco o erbe aromatiche. L’atto di fumare la Pipa e di offrirla alle 4 direzioni, al Cielo e alla Terra è la preghiera più sacra e il riconoscimento di se stessi come appartenenti all’universo del Grande Spirito. Veniva usata come mezzo di riconciliazione e di pace, poiché non si poteva dichiarare il falso in sua presenza. La pipa originale, donata da Wohlpe ai Lakota esiste ancora e viene custodita da Arvol Looking Horse, ultimo discendente di colui che, secondo la leggenda, l’aveva ricevuta per primo (vedi bibl.: I Sioux). Le sette cerimonie sacre dimostrano tutte un chiaro legame con le religioni a carattere animistico, dove il culto degli spiriti è la base di ogni rituale. Iniziazioni, tran e visioni sono il centro di uno stretto rapporto tra umanità e natura, ch’è possibile rintracciare in tutte le etnie di tipo munda, come Eschimesi, Aborigeni Australiani, Indios dell’Amazzonia (vedi bibl.: I Sioux, Introduzione all’Antropologia e Gli Indios dell’Amazzonia).
GLI HOPI
Penso valga la pena dedicare un paragrafo a questa tribù di Pellirosse Nordamericani, poiché contrariamente a tutti gli altri il loro stile di vita è di tipo esclusivamente sedentario. Abitano la Mesa Nera nei canion tra Colorado, Utah, Arizona e New Mexico, e traggono il loro sostentamento principalmente dalla terra. Coltivano mais di numerose varietà, fagioli, zucche, ortaggi, sebbene non disdegnino la caccia allo scopo di procurarsi la necessaria quantità di proteine. La loro vita si svolge su e giù per le scale, che collegano i villaggi arrampicati in cima alla mesa e i campi collocati in prossimità delle sorgenti o dei corsi d’acqua. Pare, in effetti, che la loro discendenza dagli Anasazi, tribù di antenati che costruirono i villaggi Pueblos, sia accertata. Nel New Mexico, presso il fiume Chaco, è stato rinvenuto un villaggio risalente al I secolo d.C., che fu abitato per quasi un millennio. Il sito di Pueblo Bonito sembrerebbe stato abbandonato nel XIV secolo d.C. per ragioni climatiche, dopo un altrettanto lungo utilizzo. L’organizzazione delle case ricorda quella di Chatal Huyuk: camere a pozzo; ingresso dall’alto per mezzo di scale a pioli; locali espressamente dedicati alle cerimonie comuni di culto. I reperti archeologici consistono in cesti di vimini, ceramiche, tessuti di cotone e di piume, grani di madreperla e turchese. L’insieme dà l’idea di una società complessa organizzata intorno alla coltivazione di mais, fagioli e zucca. I sistemi di canalizzazione delle acque per l’irrigazione dei campi erano altrettanto complessi di quelli usati nella già citata località dell’Anatolia (vedi bibl.: Le Grandi Civiltà Perdute).
L’organizzazione della società hopi contemporanea si basa sull’aggregazione degli uomini in società di mutuo soccorso (ognuno può essere partecipe a più d’una) e sull’autorità di un consiglio degli anziani, ma i campi da coltivare, la casa, gli oggetti di uso comune e quelli sacri sono proprietà delle donne e vengono tramandati per via matrilineare. Soltanto bestiame e alberi da frutta sono di proprietà maschile. Un clan comprende tutti coloro che vantano la discendenza da una progenitrice comune e tutti gli appartenenti allo stesso clan coetanei si considerano, tra di loro, fratello e sorella. Da ciò, ne consegue, che i matrimoni sono possibili solo tra individui di clan differenti. L’uomo al momento del matrimonio va ad abitare nella casa della moglie, la quale ha il diritto di notificargli l’avvenuto divorzio, mettendo un fagotto contenente gli oggetti personali del marito fuori alla porta. Ad occuparsi dell’allevamento e dell’educazione della prole è sempre il fratello maggiore della madre e i bambini appartengono al clan materno. Tutte le donne più anziane si considerano madri di tutti i bambini del clan, tanto ch’è praticamente impossibile che qualcuno di loro cresca orfano. Tra uomini e donne si attua una ben precisa ripartizione del lavoro: agli uomini tocca la coltivazione dei campi, la caccia e la tessitura; alle donne la macinatura del mais, la ceramica e la preparazione dei cibi. Tutto avviene in un regime di pari dignità e tutte le decisioni vengono prese tenendo conto del parere di tutti. Forse proprio nel loro attento conteggio di ciò che spetta a maschio e femmina, nel più grande rispetto di tutti, è l’essenza della loro vita serena (vedi bibl.: Introduzione all’Antropologia).
Alle donne tocca l’espletamento dei riti della nascita, del matrimonio e della morte, ma le questioni religiose sono competenza degli uomini, che ereditano il loro ruolo di sacerdoti per via matrilineare. Il capo dei sacerdoti è, quindi, il fratello più anziano della Madre del Clan. Tutte le attività religiose si svolgono nella kiva, stanza comune seminterrata, dove il sacerdote-capo della congregazione passa alcuni giorni in preghiera e digiuno allo scopo di mettersi in contatto con gli spiriti, prima di ogni manifestazione o festa. All’approssimarsi del solstizio d’inverno, si procede a una cerimonia che prevede la creazione di un disegno eseguito con polveri colorate, sabbie e carbone finemente tritato, una specie di mandala simile per concetto a quelli buddhisti, ma riproducente disegni tradizionali hopi. Su questo disegno, viene posta una ciotola d’acqua e tutt’attorno pannocchie di mais, per propiziare la caduta della pioggia necessaria all’agricoltura. Poi, il giorno esatto del solstizio, il Soyala, determinato attraverso l’osservazione di precisi punti di riferimento sulle montagne circostanti, gli uomini escono dalla kiva con maschere rappresentanti gli spiriti e danzano distribuendo bacchette sacre, che vengono messe a protezione delle case e delle sorgenti. Come le bandiere buddhiste, le bacchette sacre sono preghiere rivolte agli spiriti e consistono in asticelle colorate, alle quali vengono legate con fili di cotone piume e penne di aquila, tacchino e altri uccelli. Per gli Hopi tutta la natura è pervasa da spiriti, che sono frammenti del Grande Spirito della Natura, chiamati kachinas. Kachinas sono anche gli spiriti degli antenati, che tornano dall’aldilà a visitare i loro pronipoti. Le feste e le cerimonie sacre sono numerose, sempre coronate da danze sacre, tra cui la più suggestiva, almeno per noi Europei, è la Danza dei Serpenti, che si svolge ad anni alterni, in preparazione della quale gli animali sia innocui che velenosi vengono catturati e resi oggetto di preghiera e di venerazione, per poi essere rilasciati alla fine del rito. Durante la cerimonia della Danza della Farfalla, è abitudine che le fanciulle in età da marito dichiarino il loro amore ai giovani che intenderebbero sposare. La vita degli Hopi è, comunque, sempre arricchita da feste e cerimonie d’iniziazione come quella chiamata Wuwucim, in cui i giovani maschi vengono traghettati nel ruolo di adulti e i fuochi vengo spenti per procedere al rito di una nuova accensione, simile a quello che gli Aztechi tenevano ogni 52 anni ma senza connotati cruenti. La concezione della vita degli Hopi consiste nel dare alla nascita un significato di uscita dal regno degli inferi, per attraversare 4 età (infanzia, gioventù, maturità e vecchiaia) fino al ritorno tra gli inferi, ovvero la morte (vedi bibl.: Introduzione all’Antropologia).
Come si è visto, è facile riscontrare affinità fra gli Hopi e le altre popolazioni di pellirosse americani ma anche fra la loro e alcune culture orientali. La loro principale caratteristica, però, è la sedentarietà con l’affidamento conseguente del possesso delle case e dei campi delegato alle donne, che sono la base sociale, su cui poggia il clan. Un clan senza donne è destinato a estinguersi. Gli uomini, infatti, spesso se ne vanno, mentre le donne restano.
GLI INDIOS DELL’AMAZZONIA
Il bacino idrico del Rio delle Amazzoni rappresenta un vero continente, abitato da popolazioni di Indios con caratteristiche differenti tra loro, che vanno dal nomade raccoglitore per eccellenza all’agricoltore stanziale. Fra gli altopiani del Perù e la piana brasiliana, le condizioni climatiche variano anche di molto e le tribù che vi abitano hanno adattato i loro costumi alle circostanze. Basti pensare che sul territorio amazzonico si svilupparono ben 592 lingue ancora viventi e quasi 600 lingue ormai estinte.
Le comunità di Indios non conoscono la tecnica della lavorazione dei metalli e gli unici oggetti, fabbricati con questi materiali, di cui dispongono, provengono dalle regioni abitate dall’uomo bianco. I materiali preferiti per la costruzione degli strumenti da lavoro e da offesa rimangono ancora oggi il legno e la pietra. Perlopiù si usano archi, frecce, lance, propulsori, cerbottane, scudi di pelle di tapiro, asce di pietra. Le frecce hanno punte formate da schegge di osso, spine vegetali o aculei animali, che in qualche caso vengono intinte nel veleno, il famoso curaro. Diffusissimo è anche l’uso delle trappole. Per la pesca si usano zattere e canoe, ma il sistema più diffuso per la cattura del pesce è l’uso del veleno termolabile, per ottenere il quale si coltivano cinque o sei specie vegetali. Per integrare i proventi di caccia e pesca, si usa raccogliere vegetali commestibili e larve d’insetti (vedi bibl.: Gli Indios dell’Amazzonia). Nei casi, in cui si pratica l’agricoltura, in genere si provvede a bruciare un tratto di foresta e si semina con l’aiuto dell’apposito bastone appuntito, strumento già in uso anche presso gli Incas (vedi bibl.: Gli Indios dell’Amazzonia e L’Impero degli Inca). Non si conoscono metodi di concimazione oltre la cenere. Le specie più coltivate sono la manioca, il mais, la patata dolce, l’arachide, l’avogado, l’ananas e una specie di fagiolo, detta pallar. La cucina non è molto complicata e i cibi vengono perlopiù arrostiti su graticci di canna o bolliti in pentole di terracotta. La ceramica è, infatti, assai diffusa. Bottiglie, colini e scodelle sono ricavati dalle zucche. Le abitazioni sono di vario tipo, dai più semplici paraventi alle capanne su palafitte, passando per tutte le varianti possibili dal circolare all’ellittico, al rettangolare con tetto a doppio spiovente. L’arredamento è formato dalle amache e da qualche sgabello di legno, mentre gli oggetti vengono riposti in cesti di vimini o di altre fibre vegetali. Il costume generalizzato è la nudità sia per le donne sia per gli uomini, che in qualche caso portano un astuccio penico. Entrambi ornano il corpo con pitture, tatuaggi, gioielli di piume, perline di pietra dura, osso, elitre di coleotteri. Alcuni capi di vestiario, come grembiali e tuniche, sono stati introdotti dopo l’invasione europea. La guerra è un’attività assai diffusa, come metodo per conquistare onore e prestigio, per vendicare le offese ricevute, per ingrandire il proprio territorio di caccia e per catturare giovani donne e bambini da inserire nelle famiglie del guerriero. Non esiste né mai esistette la forma della guerra rituale: qui si fa sul serio e i nemici possono anche venir decapitati per rimpicciolirne le teste da portare come trofeo, come avveniva tra i Jivaro. Non era sconosciuto neppure il cannibalismo rituale esogamico, ovvero venivano mangiati solo gli appartenenti ad altre tribù. Codeste usanze potrebbero non essere completamente scomparse (vedi bibl.: Gli Indios dell’Amazzonia).
Dal punto di vista religioso non è possibile definire esattamente la presenza di un Grande Spirito della Natura, anche se alcune tribù credono in un Signore della Foresta oppure in un Signore degli Animali. Nella maggior parte dei casi, si tratta di spiriti separati come in Africa, e in genere, raccolti in tre categorie: spiriti della natura, spiriti umani, spiriti ausiliari. La natura è concepita come duplice, poiché a ogni cosa corrisponde un doppio nel mondo degli spiriti, che poi è considerato quello veramente reale. Ce ne sono di buoni e di cattivi, ma tutti in un qualche modo intervengono nelle attività umane. Malattie e morte sono considerate il risultato dell’intervento di qualche spirito malvagio. Esistono rituali scaramantici per ogni tipo di attività e tutta la vita degli Indios è permeata da questo senso della sacralità (vedi bibl.: Gli Aborigeni Australiani). Come in tutte le culture animistiche esistono cerimonie d’iniziazione sia per le donne sia per gli uomini, cerimonie di sepoltura e di culto degli antenati, mentre per il matrimonio esiste l’istituzione del compenso per la sottrazione della donna (vedi bibl. Gli Aborigeni Australiani, pag.44). Poiché le residenze sono sia patrilocali che matrilocali, il pretendente deve prestare un periodo di servizio a beneficio di uno dei due genitori della sposa. Nel primo caso la sposa abiterà con la famiglia del marito, mentre nel secondo lo sposo si stabilirà presso la famiglia della moglie. Le unioni sono regolate da una serie di leggi, che impediscono il matrimonio tra cugini paralleli (i figli dei fratelli dei padri, nel primo caso, o i figli delle sorelle delle madri, nel secondo), mentre è permesso tra cugini incrociati (i figli delle sorelle dei padri, nel primo caso, o i figli dei fratelli delle madri, nel secondo). E’ conosciuto il matrimonio avuncolare (lo zio sposa la nipote), il levirato (la vedova sposa il fratello del marito) e il sororato (il vedovo sposa la sorella della moglie) (vedi bibl.: Gli Indios dell’Amazzonia, pag.49 e 50). A causa della più frequente mortalità dei maschi, legata alle loro attività di caccia e di guerra, in molte tribù è diffusa la poligamia, ma non sono assenti i casi di poliandria fraternale. Molti sono i rituali magici legati alle donne e in modo speciale al mestuo e al parto. Il primo mestuo viene conservato e sotterrato così come avviene per la placenta e il cordone ombelicale, quest’ultimo in alcuni casi viene conservato come oggetto scaramantico. In alcune tribù la verginità è molto apprezzata e gli uomini sono disposti a pagare un prezzo più alto per una moglie che lo sia, ma in altre si procede allo sverginamento delle giovani con un fallo d’argilla e all’asportazione del clitoride e piccole labbra, in una cerimonia d’iniziazione che si svolge tra sole donne, ma non è raro il caso di tribù, come presso i Piro e i Machigenca, in cui la cerimonia avvenga in presenza degli uomini in completo assetto di guerra. In alcuni casi, la comparsa del primo mestuo è seguita da una cerimonia di bagno lustrale. I riti d’iniziazione maschile comprendono, invece, circoncisione, scarnificazione, taglio dei capelli, pittura del corpo con genipa, perforazione del labbro inferiore, delle orecchie, delle fosse nasali, flagellazione. In entrambi i casi al termine della cerimonia agli iniziati viene dato un nuovo nome, a indicare il loro passaggio nella categoria degli adulti (vedi bibl.: Gli Indios dell’Amazzonia).
Il culto dei morti comprende, in quasi tutti i casi, una forma di sepoltura. In genere si procede alla deposizione in postura fetale in stuoie o in urne di terracotta, spesso sotto il pavimento delle capanne, che vengono poi abbandonate, ma i Piro li seppelliscono sotto la piattaforma che serve da letto, proprio come avveniva a Chatal Huyuk (vedi bibl.: Gli Indios dell’Amazzonia e Le Grandi Civiltà Perdute). Alcune tribù procedono alla scarnificazione con metodi diversi (animali, pesci, batteri), poi le ossa vengono bruciate oppure lavate e dipinte di rosso. Non sono neppure rari i casi cannibalismo funerario sia delle carni sia delle ossa polverizzate del morto. Questo tipo di rituale è giustificato dalla credenza che nei nuovi nati s’incarni l’anima di un antenato, cosicché si cerca di abbreviare il ciclo tra morte e rinascita, ingerendo una parte del defunto che continua ad esistere nel corpo dei vivi. Non mancano ipotesi di reincarnazione negli animali della foresta o di paradisi, a cui si accede dopo una serie di prove superabili con la magia (vedi bibl. Gli Indios dell’Amazzonia).
Per venire a contatto con gli spiriti, gli sciamani ingeriscono buone dosi di sostanze allucinogene, che inducono stati ipnotici. Tutti possono divenire sciamani con l’aiuto di chi già pratica questa arte. Le sostanze più comunemente in uso sono d’origine vegetale: tabacco in tutte le sue varietà, anadenanthera, liana dei morti, datura stramonium. Di queste sostanze se ne aspira il fumo oppure s’ingerisce il succo anche sotto forma d’infuso. Diffusissimo è l’uso delle pipe (semplici e doppie) e dei sigari, ma si procede anche all’inalazione e alla masticazione. Gli Indios della Guyana introducono la sostanza allucinogena, contenuta nella secrezione di certe specie di rane, in piccoli tagli della pelle, mentre gli Amawaka allo scopo praticano bruciature sulle braccia o sul petto (vedi bibl.: Gli Indios dell’Amazzonia).
Da questa breve esposizione, certamente riduttiva per un argomento così vasto, è possibile mettere in evidenza alcune analogie con le culture africane e con le antiche culture ancestrali dell’Euroasia, prima dell’avvento della conquista dravidica. Le caratteristiche fisiche, i costumi che riguardano vestiario e abitazioni, il culto dei morti, le cerimonie iniziatiche non lasciano dubbi circa le affinità con le etnie munda. E’, dunque, evidente come le culture del bacino del Rio delle Amazzoni siano antichissime e la loro maturazione risalga a tempi ancestrali, essendo giunte intatte ai giorni nostri, nonostante l’invadenza delle civiltà di carattere agricolo-stanziale.