Cultura dei nativi americani
martedì, 28 novembre '23
Mutandine indian style
Pubblicata giovedì, 3 novembre '11
Pubblicità per la collezione Navajo
Una giovane donna Sioux americana contro un’ azienda produttrice di biancheria intima e articoli per donna, la Urban Outfitters di Minneapolis, che per la sua ultima collezione ha pensato bene di utilizzare non solo il nome, Navajo, ma anche segni e disegni sacri alla cultura e identità degli Indiani d’America.
Lei si chiama Sasha Houston Brown ed è una appartenente alla Tribù Santee Sioux.
Sconosciuta sino ad un mese fa quando, era la fine di settembre, una sua Lettera aperta all’amministratore delegato della Urban Outfitters, Glen Senk, ha fatto il giro del web in ottanta ore, suscitando una tempesta politico-commerciale che i media tradizionali hanno dovuto raccogliere.
Sasha ha accusato l’azienda di furto e appropriazione indebita dell’identità e della cultura Indiane per via dell’ultima collezione di mutandine, calzette e gadgets vari griffati con segni e disegni della Tribù Navajo. Robetta di second’ordine, distribuita in giro per il mondo (la Urban Outfitters è presente anche in Italia), prodotti che passano sulla testa di tutti gli Indiani-Americani, senza riconoscere ai segni e disegni che utilizzano alcun valore di espressione culturale e identitaria.
Sasha è andata già dura: l’utilizzo indifferente e senza ritegno di simboli sacri per gli Indiani-americani “rivela un atteggiamento razzista sgradevole e avvilente”, si legge ancora nella sua Lettera, “un’offesa e un dolore profondi per milioni di persone”, altro che “moda di stagione!”.
“Sempre più spesso industrie, gruppi sportivi, persone ignoranti tentano di legittimare il loro razzismo con la scusa dell’ “apprezzamento". Non c'è nulla di apprezzabile nella vendita di mutandine a vita bassa con i disegni Navajo o della maglietta Staring at Stars Skull Native Headdress… Questi, e decine di altri prodotti di cattivo gusto che fanno riferimento agli indiani d'America, attualmente in vendita, si fanno beffa della nostra identità e delle nostre culture.”.
La Lettera aperta ha suscitato un ciclone di reazioni, tanto che qualche giorno dopo la pubblicazione sul sito di Sasha è apparso un commento “di scuse” a firma dell’amministratore della Urban Outfitters, corredato da un numero di telefono “al quale però non risponde nessuno, cosa che non mi ha stupito più di tanto", ha ribattuto Brown.
Senza mollare il web, la giovane Sioux si è dunque rivolta alla professoressa Susan Scafidi della Fordham University School of Law. Scafidi ha fondato il Fashion Law Institute, ed è un’esperta di diritto d’autore applicato all’industria dell’abbigliamento.
“Siamo di fronte ad una vera appropriazione indebita della cultura degli Indiani – americani, dice Scafidi -, è una vecchia storia che non riguarda solo il mondo della moda. Basti pensare al caso della Jeep Cherokee o a quello del Washington Redskins. Su quel marchio di fabbrica c'è stato un contenzioso enorme, questa è robetta al confronto, di scarso appeal. Forse per questo la cosa è arrivata sino a questo punto. Ottenere giustizia per i popoli indigeni è difficile… In passato sono stati vittime di un vero e proprio genocidio, oggi sono costretti a subire quello che alcuni hanno definito “genocidio culturale”. Il saccheggio della terra e dei beni personali, prima, il saccheggio dell’espressione culturale, dell’arte, insomma di quello che consideriamo proprietà intellettuale, dopo, si innestano su un passato di offese gravissime.".
A differenza dell'Australia, - per Susan Scafidi uno dei i paesi che ha lavorato di più per l’estensione della tutela della proprietà intellettuale ai popoli indigeni -, “gli Stati Uniti sono rimasti indietro.”. Il Federal Indian Arts And Crafts Act risale solo al 1990, “e la perdita della cultura come ingiustizia grave, al pari di tante altre situazioni spaventose verificatesi nel corso dei secoli, come la perdita dei terreni, l’allontanamento forzato dei bambini, è stata riconosciuta tale solo in tempi molto recenti.”.
Secondo l’Indian Arts And Crafts Act, “È illegale offrire o esibire per la vendita, o vendere, qualsiasi arte o prodotto artigianale che in maniera fallace suggerisca che sia stato prodotto dagli indiani, o che sia un prodotto indiano, o ancora il prodotto di un determinato indiano, di una particolare tribù indiana, o dell’organizzazione indiana delle arti e dei mestieri, residenti negli Stati Uniti. Se un'impresa viola la legge, può incorrere in sanzioni civili o può essere processata e multata fino a $ 1.000.000.”. Tutto a posto, dunque? Non proprio:" il vero problema dell’ Indian Arts And Crafts Act , - spiega infatti fSusan Scafidi -, è che come, dice lo stesso titolo, protegge solo “le arti” e “i mestieri". Quali sono gli oggetti che possono riferirsi ad “arti e mestieri”? Questo spiega il caso della Jeep Grand Cherokee, “una macchina non è un’opera d'arte, né un prodotto artigianale.”.
Non lo è neanche un capo d’abbigliamento. La moda non è considerata un’ “arte” (né è tutelabile il modello di un capo di abbigliamento, secondo l’attuale legislazione degli Stati uniti), e la produzione di massa di prodotti come quelli venduti dalla Urban Outfitters non si può considerare realmente “artigianato”. Secondo Scafidi un livello molto più elevato di tutela potrebbe comunque derivare alla Nazione Navajo dal fatto che la Tribù ha depositato il marchio del nome, mettendolo sullo stesso piano di altri marchi come “Chanel” o “Burberry”.
Da parte sua, la Navajo Nation ha già diffidato la Urban Outfitters dall’utilizzare il marchio della tribù per i suoi prodotti. “Un marchio di fabbrica 'Navajo' per l'abbigliamento già esiste - sottolinea Scafidi -, e riguarda spressamente jeans, top, magliette e felpe”, insieme a categorie più generali come “abbigliamento sportivo.”.
Ma non tutti i prodotti che la Urban Outfitters sta vendendo sotto il nome "Navajo" sono elencati in questo marchio di fabbrica , “e anche se si potrebbe immaginare che altri articoli dello stesso genere possano rientrare nella categoria “confusamente simili ”, nel senso che sarebbero protetti da violazioni, “in tribunale, la Urban Outfitters potrebbe ribattere e dire: Beh, se volevate che il vostro marchio comprendesse pure mutandine, allora avreste dovuto depositare pure quelle.”.
Alla fine, il destino delle mutande a vita bassa Navajo potrebbe dipendere da un giudice.
Completamente diversa, a quanto è dato sapere, la posizione e la strategia dell'azienda. Parola d’ordine, mantenere un basso profilo. Alla Urban Outfitters dicono di non aver mai ricevuto la lettera di diffida della Navajo Nation (ma Sasha dice di avere le prove della consegna, avvenuta il 30 giugno 2011),e si trincerano dietro la solita questione del trend. “Noi interpretiamo le tendenze, siamo rivenditori di stili di vita che mirano ad attirare clienti con prodotti seducenti”, ha dichiarato alla stampa Ed Looram, direttore delle pubbliche relazioni. “In questi ultimi anni, c’è un ritorno del trend ispirato agli Indiani d’America, e in particolare al termine Navajo, grazie alla moda, all’arte e al design.”.
Al momento, dunque, l’azienda non pensa né di modificare né tanto meno di interrompere la commercializzazione dei prodotti della linea Navajo. In quanto alla diffida, si vedrà.
Una diffida, a volte, ma non sempre, è il preludio di una causa legale. Come andrà a finire? La Navajo Nation citerà la Urban Outfitters per violazione del marchio di fabbrica? “Siamo cautamente ottimisti sul fatto che la Urban Outfitters Corporation si convincerà ad adottare un altro nome e marchio di fabbrica per i suoi prodotti.”, dichiara intanto, conciliante, Brian Lewis, avvocato della Navajo Nation.
La battaglia legale si annuncia comunque complessa.
“Dal mio punto di vista, - spiega ancora Susan Scafidi -, Navajo è un popolo, non un modello”. I marchi della Nazione Navajo sono talmente specifici da essere fortemente tutelati, “ma da un punto di vista strettamente giuridico la Urban Outfitters può trovare parecchie argomentazioni per difendersi. Rispetto all’Indian Arts And Crafts Act potrebbe benissimo dire: Guardate, qui non si tratta di arte o di un prodotto d’artigianato!, e rispetto al marchio aggiungere: “Bene, sui nostri prodotti ci sono anche altri marchi di provenienza, nessuno è disorientato dalla parola Navajo”.
L’azienda potrebbe anche argomentare che il termine "Navajo" non è stato utilizzato come nome o marchio, ma come parola chiave (anche se sarebbe difficile da sostenere visto che la linea di vendita è composta da ben 21 prodotti con il nome Navajo).”.
"La questione è dunque complessa”, dice Scafidi. "Sarebbe meglio che l’azienda decidesse spontaneamente di non utilizzare questo linguaggio ambiguo.
Per esempio, cambiando il nome: da 'Navajo' a 'Southwestern'. Sarebbe già un bel passo avanti verso la non banalizzazione di un intero popolo", e i loro prodotti sarebbero più al sicuro.
Cambiare i nomi dei prodotti potrebbe dunque rappresentare una mossa di buonsenso vincente. Ma la Urban Outfitters fa spallucce, e va avanti.
Fonte: womeninthecity
COMMENTI
![]() martedì, 22 novembre '11 |
Dite pure cosa vi pare, ma a me piacciono, esteticamente parlando. |