Cultura dei nativi americani
mercoledì, 1 febbraio '23
Presidenziali americane: il fattore indiano
Pubblicata sabato, 3 novembre '12
Se si interrogasse un cittadino americano qualunque a proposito di popoli nativi probabilmente si ascolterebbero racconti sull’epopea del Far West, sulle battaglie fra indiani e cowboys, sulla tradizione del Giorno del Ringraziamento. La narrativa dominante, infatti, colloca i nativi americani nella sfera del mito, della cosmologia delle origini. Perché, allora, sempre più politici fanno campagna elettorale nelle riserve e si contendono il voto indiano? Nelle primarie democratiche del 2008, ad esempio, Obama ha cercato il sostegno tribale in tutti gli stati con una significativa percentuale di popolazione nativa. E nella campagna in corso per le presidenziali l’attivismo nativo sta giocando un ruolo strategico.
La minoranza indiana corrisponde oggi al 2% circa della popolazione statunitense, con una percentuale di giovani notevolmente maggiore rispetto alla media nazionale: il 42%, infatti, ha meno di 24 anni e si calcola che mezzo milione di nativi potrebbe votare alle presidenziali del 2016.
Tuttavia il National Congress of American Indians (Ncai) afferma che nel 2008 si era registrato per il voto soltanto il 40% degli aventi diritto e che quindi oltre un milione di potenziali elettori manca all’appello. Nonostante il voto nativo sia in grado di incidere sui risultati elettorali sia a livello statale che federale (basti pensare al caso dell’Alaska, in cui i nativi costituiscono il 17% della popolazione), il tasso di astensionismo è il più alto tra i gruppi etnici minoritari presenti negli Stati Uniti.
Tale fenomeno si spiega considerando, da un lato, che gli indici di povertà e disoccupazione presso i nativi sono i più alti del Paese e, dall’altro, che gli abitanti delle riserve incontrano notevoli difficoltà pratiche viste la scarsità e la lontananza dei seggi. Va sottolineato, poi, che fino all’approvazione dell’Indian Citizenship Act, nel 1924, i nativi non erano neppure riconosciuti come cittadini americani. In questo senso, la campagna elettorale del 2008 ha rappresentato una notevole inversione di tendenza: da un lato, Obama ha messo in primo piano la questione dei “First Americans”; dall’altro, si è assistito a un protagonismo nativo sia nei finanziamenti elettorali che nella partecipazione attiva alla campagna.
Obama ha tentato di costruire un’immagine positiva presso i nativi, trascorrendo alcune settimane nella riserva della nazione Crow – dove è stato adottato col nome di “Colui-che-aiuta-le-persone-di-tutta-la-terra” – e assumendo numerosi nativi nel suo staff. Già altri candidati alla presidenza avevano rivolto promesse alle Nazioni Indiane, tuttavia Obama è stato il primo a concretizzare le proprie dichiarazioni di intenti.
Negli ultimi quattro anni, infatti, il presidente ha difeso e firmato leggi in favore dei nativi: in particolare, l’Indian Health Care Improvement Act che assicura nuovi e più estesi servizi sanitari ai due milioni di nativi americani che usufruiscono dell’Indian Health Service; il Tribal Law and Order Act, volto a migliorare la sicurezza e il funzionamento del sistema giudiziario nelle riserve; il recentissimo Helping Expedite and Advance Responsible Tribal Homeownership Act, che permette alle tribù di concedere lotti in affitto a scopo residenziale, lavorativo o educativo senza dover passare per il Bureau of Indian Affairs.
Obama ha poi inaugurato un nuovo modello di relazione con i governi tribali, che prevede il coordinamento tra agenzie federali e autorità indiane; inoltre, il presidente ha organizzato alla Casa Bianca tre Conferenze annuali con i rappresentanti delle 565 tribù riconosciute dal governo federale.
Proprio in occasione della seconda Conferenza delle nazioni tribali, il 16 luglio 2010, Obama ha annunciato la firma della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 2007. All’epoca, gli Stati Uniti si erano espressi con voto contrario ed erano rimasti l’unico Paese a non aver firmato la Dichiarazione.
Molti leader tribali considerano Obama il miglior presidente degli Stati Uniti in relazione alle Nazioni Indiane e, più in generale, l’appoggio dei nativi al Partito Democratico è sempre crescente: alla Convention democratica di Charlotte si contavano 161 delegati nativi (rispetto ai 150 del 2008 e agli 80 del 2004), che sostenevano Obama e, al tempo stesso, manifestavano l’intenzione di fondare un caucus nativo all’interno della Convention, per accrescere la forza delle rivendicazioni native e difendersi da eventuali strumentalizzazioni (si pensi, ad esempio, al caso Warren) .
Il sostegno a Obama si accompagna quindi al desiderio di vedere sempre più nativi eletti in cariche statali – in questo senso è da leggersi l’appoggio trasversale delle tribù a Paulette Jordan, membro dei Coeur d’Alène e candidata democratica alla Idaho House of Representatives – e di affermare la specificità della partecipazione indiana alle elezioni “non-native”.
Il nuovo protagonismo elettorale degli indiani americani è stato recepito da entrambi i partiti, che hanno elaborato piattaforme particolarmente sensibili alle problematiche native: da un lato, i Democratici hanno sottolineato i risultati positivi ottenuti dall’amministrazione Obama, impegnandosi per un maggiore riconoscimento della sovranità tribale; dall’altro, la Convention repubblicana di Tampa ha moltiplicato le proposte di policy rispetto al 2008, promettendo il raggiungimento dell’auto-sufficienza economica delle tribù, ma anche riconoscendo particolare valore all’alta percentuale di nativi che ha prestato servizio militare.
Se, da un lato, le preferenze native sono evidentemente rivolte a Obama – e aspre sono state le polemiche sui media nativi a proposito delle dichiarazioni di Romney sulla povertà e la disoccupazione – dall’altro non sono mancate voci critiche tra i politici e gli attivisti nativi: l’avvocato Blackfeet Gyasi Ross denuncia come l’assenza di policy per la salvaguardia delle lingue native edei principali siti religiosi metta a rischio la stessa sopravvivenza culturale degli indiani americani.
Inoltre, nulla ancora è stato fatto per tutelare i diritti ambientali nelle riserve, continuamente minacciati dagli interessi economici del governo e delle multinazionali, come nel caso della costruzione dell’oleodotto Keystone XL oppure dello stoccaggio illegale di rifiuti radioattivi a Fort Reno.
L’attivista cheyenne Lance Henson denuncia inoltre l’impossibilità per le popolazioni native di difendersi da simili soprusi: alle due tribù dell’Oklahoma che hanno attivamente protestato per la presenza di scorie radioattive sono state applicate le misure previste dalla legge anti-terrorismo varata dall’amministrazione George W. Bush e mantenuta in vigore da Obama.
Del resto, è impossibile comprendere appieno le proteste native e l’ambivalenza delle tribù nei confronti delle elezioni presidenziali senza considerare la specificità della condizione degli indiani americani: le Nazioni Indiane, infatti, non dovrebbero essere considerate gruppi minoritari all’interno della popolazione statunitense; piuttosto, esse sono popoli sovrani, riconosciuti tali dai trattati stipulati nel corso dei secoli con il governo federale.
I diritti collettivi delle tribù indigene sono stati sottratti progressivamente alla sfera del diritto internazionale attraverso il “processo di domesticazione”, per divenire competenza esclusiva della giurisdizione interna.
A partire dagli anni Settanta del XIX secolo, la maggior parte degli oltre 400 trattati stipulati con le Nazioni Indiane è stata unilateralmente cancellata dal Congresso e dalle autorità federali.
Nonostante l’art. 37 della Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni – firmata da Obama – preveda proprio il diritto al riconoscimento e all’osservanza dei trattati, e nonostante Obama stesso abbia promesso fin dal 2008 di adempiere alle previsioni pattizie, nessuna azione è stata ancora intrapresa in tal senso.
D’altronde, come osserva Lance Henson, per rispettare simili promesse sarebbe necessario «riscrivere la Costituzione degli Stati Uniti e restituire ai popoli indigeni la maggior parte del territorio americano». In questo senso, lo statuto di sovranità parziale concesso alle Nazioni Indiane non può soddisfare le frange più radicali del movimento di resistenza nativo, apertamente contrario alla partecipazione indigena alle presidenziali: come afferma Henson «fino a oggi, il miglior presidente rispetto ai popoli indigeni è stato Jimmy Carter, che almeno non si è occupato di noi».
D’altra parte, fin dagli anni Novanta, la crescente partecipazione elettorale indigena ha stimolato gli interessi strategici dei politici americani, in quanto il voto nativo si è rivelato cruciale in alcuni stati dell’Ovest.
Come mostra un recente studio dell’Università dello Utah, gli elettori indiani sono già risultati decisivi in diverse occasioni: nel 2000 hanno contribuito alla vittoria della democratica
Maria Cantwell nello Stato di Washington e hanno inciso sulla vittoria di Al Gore in New Mexico; nel 2002 sono stati decisivi sia nella rielezione del senatore democratico Tim Johnson in South Dakota, sia nella vittoria della candidata democratica Janet Napolitano in Arizona.
Inoltre, il voto nativo è destinato a rivestire un’importanza sempre maggiore se si considera l’influenza crescente degli stati dell’Ovest nelle primarie presidenziali, soprattutto in New
Mexico, South Dakota e Arizona, dove la percentuale della popolazione nativa è rispettivamente il 9,4%, 8,9% e 5,2% del totale.
Proprio il New Mexico ha rivestito un ruolo chiave nelle elezioni del 2008: già durante le primarie Obama aveva cercato e ottenuto il sostegno nativo, che è stato determinante anche nelle successive presidenziali.
Quale sarà, allora, il ruolo dell’elettorato nativo nelle prossime elezioni? Senza dubbio, più del semplice sostegno a uno dei due candidati appare decisiva la consapevolezza emergente di poter fare la differenza.
I nativi americani sono emersi come nuovi attori nel gioco elettorale, a partire dai finanziamenti ai partiti: i governi tribali hanno donato più di un milione di dollari alla campagna di Obama, rispetto ai US$264.000 devoluti nel 2008; mentre Romney ne ha ricevuti soltanto 3.000.
Ma non è tutto. Coscienti di poter influenzare i risultati di alcuni stati in bilico, moltissimi elettori nativi hanno aderito alle iniziative di coinvolgimento e partecipazione lanciate dallo Ncai. La campagna Native Vote è tesa appunto a incoraggiare l’esercizio del diritto di voto nelle tribù facilitando la registrazione degli elettori, i quali adesso hanno la possibilità di registrarsi anche presso le cliniche dell’Indian Health Service. Native Vote si è poi data il compito di raccogliere dati sul turnout elettorale e sull’impatto del voto nativo.
Inoltre, in collaborazione con l’organizzazione nazionale Rock the Vote, Native Vote ha ideato una campagna ad hoc per coinvolgere i giovani nativi nel processo elettorale.
Di Alice Caramella, Phd in Democrazia e Diritti Umani, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Genova.