Pubblicata mercoledì, 7 gennaio '04
Come era già successo per la prima, nella seconda guerra mondiale gli Indiani combattono nelle fila dell'esercito americano. Sono passati alla storia i radiocronisti Navaho, che trasmettevano i messaggi nella loro lingua impedendo così ai Giapponesi e ai Tedeschi di decifrarli.
Malgrado ciò, negli anni Cinquanta il governo americano ritorna all'idea di una rigida integrazione dei Nativi, attaccando una volta per tutte le ultime riserve. Vara, quindi, una nuova politica e fa firmare al Congresso un decreto, chiamato Termination Act, con l'intento di far cessare la supervisione federale sulle riserve, tagliare ogni forma di assistenza agli indiani e demandare la giurisdizione civile e penale delle riserve ai singoli Stati.
Quindi parte a "smantellare" le tribù (e guarda caso inizia proprio da quelle che hanno le terre più ricche): gli Indiani ricevono del denaro e sono costretti a lasciare il territorio. Nel giro di poco tempo i soldi finiscono e non si trova lavoro: è la miseria più nera.
Non servono a niente le proteste, le delegazioni inviate a Washington, gli incidenti. Fra il 1954 e il 1960 ben sessantuno comunità indiane si vedono scacciate dal loro territorio.
Nel frattempo il famigerato Bureau of Indian Affairs studia e finanzia un progetto per accelerare l'urbanizzazione dei pellerossa: riceveranno un piccolo aiuto economico che permetterà loro di insediarsi nelle città e vivere per un po' prima di trovare un lavoro. E i pochi fortunati che lo trovano scopriranno ben presto che a loro sono riservati i lavori più umili e sottopagati.
Bisognerà aspettare fino al 1970 perchè un presidente, Richard Nixon, cambi rotta e critichi il Termination Act. La nuova politica governativa punta allora a un certo tipo di federalismo: autonomia dei governi tribali e finanziamento diretto alle singole tribù, senza i macchinosi passaggi fra organismi goverantivi pasticcioni e molto spesso corrotti.
Questa svolta ha provocato due distinte reazioni fra le comunità indiane: alcuni la considerano una buona occasione per partire sulla strada dell'autodeterminazione, altri sospettano che il governo abbia altre intenzioni, cioè che riducendo interventi e stanziamenti, forse tenta, una volta per tutte, di liberarsi del "problema indiano". L'atteggiamento repressivo del governo nei confronti dei movimenti e delle organizzazioni indiane sembrerebbe forse dare ragione alla seconda ipotesi.
Malgrado un aumento della popolazione (da duecentocinquantamila unità nel 1900 ai quasi due milioni attuali), i pellerossa restano, fra tutte le minoranze etniche presenti negli Stati Uniti, quelli con la più bassa speranza di vita alla nascita (intorno ai quarantasei anni), il più basso reddito pro capite, il più alto tasso di disoccupazione (circa il cinquanta per cento fra la popolazione attiva).
L'elevato numero di suicidi e l'abuso di alcolici indicano che se da un lato l'integrazione, tanto auspicata dai bianchi, non è riuscita, l'identità umana e culturale dell'Indiano è stata comunque messa profondamente in discussione.
E questa situazione è comune pure fra gli Inuit del Canada, anche se loro il grande salto lo hanno fatto: il 1° aprile 1999 hanno ottenuto dal governo centrale l'autonomia. Nunavut, la nuova nazione, sarà responsabile in prima persona della sanità, dei servizi sociali, dell'educazione, della cultura, della politica edilizia, insomma di tutto ciò che fa di un territorio una nazione.